Un nuovo rapporto scientifico dell’American Heart Association (AHA) lancia un avvertimento chiaro: ridurre drasticamente il consumo di alimenti ultra-processati (UPF) ricchi di grassi saturi, zuccheri e sale – noti come HFSS – non è solo una scelta salutare, ma una misura che potrebbe letteralmente salvare vite.
Il documento, pubblicato sulla rivista Circulation, sintetizza anni di ricerche sul legame tra questi prodotti e la salute cardiometabolica, chiedendo interventi politici decisi per invertire una tendenza che, negli Stati Uniti, ha raggiunto livelli preoccupanti.
Cosa sono gli alimenti ultra-processati e perché fanno male
Gli alimenti ultra-processati non sono semplicemente “cibo spazzatura” nel senso comune del termine: sono prodotti industriali ottenuti da ingredienti e processi che non troveremmo in una cucina domestica, come additivi, emulsionanti, aromi artificiali e dolcificanti intensi.
Secondo la classificazione NOVA, rientrano in questa categoria bibite zuccherate, snack confezionati, piatti pronti, carni lavorate e cereali da colazione zuccherati. Negli Stati Uniti, questi alimenti forniscono oltre la metà delle calorie totali, e nei cosiddetti food deserts – aree con scarsa disponibilità di supermercati e cibi freschi – possono arrivare a costituire più del 70% dei prodotti sugli scaffali.
La preoccupazione principale non riguarda solo il loro basso valore nutrizionale, ma anche il loro impatto fisiologico diretto: diversi studi indicano che, quando gli UPF superano il 10-15% delle calorie quotidiane (circa due porzioni), il rischio di malattie cardiometaboliche aumenta in modo significativo.
I rischi per la salute
La revisione dell’AHA riporta dati impressionanti:
- +25% fino a +58% di rischio di sviluppare problemi cardiometabolici (cardiopatie, diabete di tipo 2, obesità).
- +21% fino a +66% di rischio di mortalità per tutte le cause.
Queste percentuali non sono basate su semplici correlazioni: uno studio controllato del National Institutes of Health ha dimostrato che, a parità di calorie, zuccheri, grassi e fibre, chi segue una dieta ricca di UPF tende a consumare circa 500 calorie in più al giorno e ad aumentare di peso. Ciò significa che è la trasformazione industriale del cibo – e non solo i nutrienti – a influenzare i meccanismi di fame e sazietà.
Il legame con il microbiota intestinale
Uno dei punti più interessanti del rapporto AHA riguarda l’effetto degli alimenti ultra-processati sul microbiota intestinale, l’insieme di miliardi di microrganismi che popolano il nostro apparato digerente e che svolgono un ruolo cruciale nella digestione, nel metabolismo e nella regolazione del sistema immunitario.
Alcuni additivi comunemente utilizzati negli UPF, come gli emulsionanti (es. carbossimetilcellulosa), possono alterare in modo significativo la composizione e le funzioni del microbiota, riducendo la diversità microbica e favorendo la crescita di specie associate a infiammazione e disfunzioni metaboliche. Questo fenomeno, chiamato disbiosi, è stato collegato a disturbi come obesità, insulino-resistenza e patologie cardiovascolari.
La perdita di diversità microbica può anche compromettere la barriera intestinale, aumentando la permeabilità e favorendo il passaggio nel sangue di sostanze pro-infiammatorie. È un effetto a catena: alterazioni del microbiota → infiammazione cronica di basso grado → peggioramento del rischio cardiometabolico.
In altre parole, non è solo questione di calorie o zuccheri, ma anche di come certi ingredienti interferiscono con l’ecosistema interno che regola molte funzioni vitali.
Perché questi alimenti sono così diffusi
Il successo commerciale degli alimenti ultra-processati si spiega con una combinazione di fattori, tra cui:
- Costo ridotto e lunga conservazione, che li rendono appetibili a fasce di popolazione a basso reddito.
- Marketing aggressivo, spesso mirato a bambini e comunità vulnerabili.
- Praticità, in una società dove i ritmi di vita spingono verso pasti rapidi e pronti all’uso.
Tuttavia, questa diffusione ha un prezzo: l’omologazione della dieta mondiale. Secondo l’AHA, oggi il 90% delle calorie globali proviene da appena 15 specie vegetali, in gran parte utilizzate nella produzione industriale di UPF (mais, soia, frumento e oli vegetali), con conseguenze negative anche sulla biodiversità agricola.
Cosa propongono i cardiologi americani
Il rapporto non si limita a denunciare il problema, ma suggerisce azioni concrete.
- Etichette chiare in prima pagina sugli alimenti, con indicazione del contenuto di grassi saturi, zuccheri e sale.
- Tassazione mirata sui prodotti HFSS.
- Revisione del sistema GRAS (Generally Recognized as Safe) della FDA, che oggi consente a oltre 10.000 additivi di essere utilizzati senza studi di sicurezza a lungo termine, soprattutto sugli effetti combinati.
- Limitazioni agli additivi ad alto rischio, seguendo esempi come il bando californiano di alcuni coloranti e conservanti.
- Incentivi all’industria per formulare prodotti più sani.
- Strategie di equità alimentare, per garantire a tutti l’accesso a cibi freschi e minimamente processati.
Non tutti i processati sono da eliminare
Il documento AHA riconosce che non tutti gli alimenti trasformati sono da demonizzare: pane integrale confezionato o bevande vegetali senza zuccheri possono avere un ruolo in diete equilibrate, soprattutto in contesti dove la disponibilità di cibo fresco è limitata.
L’obiettivo non è abolire qualsiasi cibo confezionato, ma ridurre la quota di UPF HFSS, privilegiando alternative nutrienti e meno dannose.
Cambiare rotta richiede un approccio multilivello: educazione alimentare, riforme legislative, sostegno all’agricoltura sostenibile e riduzione delle disuguaglianze di accesso. È una sfida che va oltre la salute individuale: riguarda l’ambiente, la giustizia sociale e la resilienza dei sistemi alimentari.
Il messaggio dell’AHA è inequivocabile: meno ultra-processati, più alimenti freschi e minimamente trasformati. Una scelta che può ridurre il rischio di malattie croniche, migliorare la qualità della vita e persino salvare vite.


