Al congresso UEG Week 2025, che quest’anno ha riunito a Vienna migliaia di specialisti da tutto il mondo per discutere i progressi più recenti in gastroenterologia, uno degli interventi più attesi non riguardava nuove terapie o farmaci innovativi, ma un tema che tocca la vita quotidiana di ciascuno di noi: le microplastiche

L’atmosfera si è fatta improvvisamente più attenta quando sul palco è stato presentato uno studio che indaga un legame sempre più inquietante, quello tra l’ingestione di microplastiche e la salute del nostro microbioma intestinale.

Microplastiche nei mari e nei fiumi

Il dato di partenza, del resto, è noto: minuscole particelle di plastica, più piccole di cinque millimetri, sono ormai ubiquitarie. Si trovano nei mari e nei fiumi, negli alimenti che consumiamo, nell’acqua che beviamo, perfino nell’aria che respiriamo. Ma cosa succede quando queste particelle invisibili entrano in contatto con il nostro organismo, e in particolare con quell’ecosistema fragile e complesso che è l’intestino?

A questa domanda ha cercato di rispondere un team guidato da Christian Pacher-Deutsch all’interno del progetto microONE, coordinato dal centro di ricerca austriaco CBmed con il supporto di diversi partner internazionali. Lo studio è stato presentato in anteprima proprio qui, davanti a un pubblico di medici e ricercatori che, come me, hanno seguito con crescente interesse la presentazione dei risultati.

I ricercatori hanno adottato un approccio diretto e innovativo: hanno utilizzato campioni fecali provenienti da cinque volontari sani per creare colture di microbioma intestinale in laboratorio. Queste colture sono state poi esposte a cinque diversi tipi di microplastiche comuni – polistirene, polipropilene, polietilene a bassa densità, polimetilmetacrilato e polietilene tereftalato – in concentrazioni che rispecchiano sia i livelli di esposizione quotidiana stimati sia dosaggi più elevati, per verificare eventuali effetti dose-dipendenti.

Ecco come alterano il microbiota intestinale

A prima vista, i numeri sembravano rassicuranti: la quantità totale di batteri e il numero di cellule vive non cambiava significativamente. Tuttavia, guardando più a fondo, è emerso un quadro diverso. Le colture trattate con microplastiche mostravano infatti un abbassamento costante del pH, segno che l’attività metabolica dei microrganismi era stata modificata. In altre parole, i batteri non erano diminuiti, ma avevano cominciato a comportarsi diversamente.

Il cuore della scoperta riguarda i cambiamenti nella composizione del microbioma. Alcune famiglie batteriche aumentavano, altre diminuivano, e la direzione di questi spostamenti dipendeva dal tipo di microplastica presente. In particolare, sono state coinvolte famiglie note come Lachnospiraceae, Oscillospiraceae, Enterobacteriaceae e Ruminococcaceae, molte delle quali appartengono al phylum Bacillota, cruciale per la digestione e per l’equilibrio intestinale.

Ma non si tratta solo di numeri o percentuali. Le analisi hanno rivelato che queste variazioni si accompagnavano a cambiamenti nei metaboliti prodotti dai batteri. Alcune microplastiche, per esempio, influenzavano la produzione di acidi grassi come l’acido valerico e il 5-amminopentanoico, altre alteravano i livelli di lisina o di acido lattico. Sono dettagli biochimici che, per i non addetti ai lavori, possono sembrare marginali, ma che in realtà raccontano come la presenza di microplastiche inneschi un’intera catena di reazioni chimiche nell’intestino.

Il punto più delicato, e anche quello che ha suscitato più mormorii tra il pubblico, è stato il confronto con dati precedenti: alcuni dei pattern osservati ricordano quelli associati a condizioni come la depressione e il tumore del colon-retto. Non significa, ha sottolineato con prudenza Pacher-Deutsch, che esista già una correlazione diretta tra microplastiche e queste malattie, ma l’assonanza non può essere ignorata.

Gli effetti sulla salute

Durante la conferenza, lo scienziato ha provato a spiegare i possibili meccanismi. Una delle ipotesi è che le microplastiche, con la loro superficie, offrano terreno fertile per la formazione di biofilm microbici, creando così nicchie che alcuni batteri colonizzano più facilmente di altri. Un’altra possibilità è che le microplastiche trasportino sostanze chimiche capaci di influenzare direttamente il metabolismo batterico, provocando uno stress che si riflette nella produzione di acidi e nel conseguente abbassamento del pH. Da qui, potrebbero attivarsi veri e propri circoli viziosi che alterano in maniera profonda l’equilibrio della flora intestinale.

Il tema è quanto mai vicino alla nostra quotidianità. Pacher-Deutsch lo ha ribadito con forza: “Le microplastiche sono ovunque. Le troviamo nel pesce, nel sale da cucina, nelle bottiglie d’acqua e persino nell’acqua del rubinetto. L’esposizione è inevitabile: avviene per ingestione, per inalazione, perfino attraverso la pelle”.

Le implicazioni, dunque, sono enormi. Certo, siamo ancora agli inizi, e non è possibile trarre conclusioni definitive sugli effetti clinici a lungo termine. Il microbioma intestinale, ormai riconosciuto come un attore centrale per la salute che va dalla digestione fino al benessere mentale, risente della presenza di microplastiche. E questo dato, di per sé, è sufficiente a considerare il problema con grande attenzione.

Lo studio non fornisce ancora risposte su come proteggerci o su quali possano essere le conseguenze a lungo termine. Ma indica con chiarezza che l’esposizione a microplastiche non è neutrale. Forse la strada, oggi, è soprattutto quella della prudenza: ridurre l’uso della plastica monouso, preferire materiali alternativi quando possibile, e continuare a sostenere la ricerca che ci permetterà di comprendere meglio i rischi reali.

Le microplastiche non sono più soltanto un problema ambientale: sono entrate nel nostro corpo, nei nostri batteri intestinali, forse perfino nei meccanismi che regolano il nostro umore e la nostra vulnerabilità alle malattie. Ed è difficile immaginare una notizia che ci riguardi più da vicino.