L’insonnia non è semplicemente “dormire poco” o “dormire male”. È un disturbo vero e proprio, con criteri diagnostici chiari, conseguenze pesanti sulla salute mentale e fisica, e un impatto economico che oggi in Italia viene quantificato in circa 14 miliardi di euro l’anno, pari allo 0,74% del PIL, tra costi sanitari e produttività perduta. Dietro queste cifre c’è una popolazione enorme: circa 13,4 milioni di italiani, soprattutto donne tra i 45 e i 65 anni, convivono con problemi di sonno che non sono occasionali, ma persistenti, invalidanti e spesso ignorati.

Negli ultimi mesi, un position paper pubblicato su *Sleep Medicine* da un gruppo di esperti europei e canadesi di sonno e salute mentale ha lanciato un vero “wake-up call” alle istituzioni: il disturbo da insonnia deve entrare a pieno titolo nelle agende di sanità pubblica, al pari di altre condizioni croniche ad alto impatto.Il messaggio è chiaro: non stiamo parlando di un fastidio individuale, ma di una patologia diffusa, cronica e largamente sotto-trattata.

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Quando l’insonnia diventa una malattia cronica

Secondo le principali classificazioni internazionali (DSM-5, ICSD-3, ICD-11), l’insonnia è un disturbo del sonno e della salute mentale, con criteri che vanno ben oltre la semplice difficoltà a prendere sonno. Per parlare di insonnia cronica è necessario che il paziente riferisca problemi ad addormentarsi, a mantenere il sonno o risvegli molto precoci per almeno tre notti a settimana, per tre mesi consecutivi, nonostante condizioni adeguate per dormire e in assenza di altre cause che spieghino meglio il quadro, come un altro disturbo del sonno, l’effetto di farmaci o una patologia medica o psichiatrica non controllata.

In Italia si stima che circa il 6% degli adulti soddisfi i criteri di insonnia cronica. Questa forma non si esaurisce durante la notte: la sofferenza continua nelle ore diurne, con stanchezza, difficoltà di concentrazione, irritabilità, calo della motivazione, ansia anticipatoria legata al momento di andare a letto. Non sorprende che l’insonnia cronica sia associata a un aumento del rischio di depressione, disturbi d’ansia, abuso di alcol, comportamento suicidario, demenze, ictus, malattie cardiovascolari e disturbi metabolici come obesità e diabete, come ricordato anche dagli esperti coinvolti nel position paper internazionale.

Un costo enorme per il sistema Paese

I nuovi dati italiani parlano di circa 14 miliardi di euro l’anno di costi imputabili all’insonnia, tra spesa sanitaria diretta (visite, ricoveri, farmaci) e costi indiretti. In questi ultimi rientrano l’assenteismo, cioè le giornate di lavoro perse, ma anche il cosiddetto presenzialismo: essere fisicamente al lavoro ma con performance ridotta, errori più frequenti, rallentamento generale. A questo si somma l’aumento del rischio di incidenti stradali e domestici legati a sonnolenza, ridotta vigilanza, calo dei riflessi.

Una recente indagine condotta da Elma Research su 400 pazienti italiani mette volti concreti dietro le percentuali. Tra chi ha un impiego, quasi nove persone su dieci dichiarano ripercussioni negative sul lavoro: circa la metà ha perso giornate lavorative (in media sette l’anno), oltre l’80% riferisce un calo marcato della performance per almeno tre giorni a settimana, e quasi un quarto racconta di aver perso il lavoro a causa dell’insonnia. Il 22% dei pazienti ha riportato un incidente nei 12 mesi precedenti, e in più di un terzo dei casi è stato necessario un intervento medico. Non sono numeri astratti, ma episodi che pesano sulla vita delle persone e sul welfare collettivo.

Una patologia… che quasi nessuno diagnostica

Nonostante l’impatto, l’insonnia resta largamente sottodiagnosticata: solo il 40% dei pazienti riceve una diagnosi formale e poco più di uno su cinque accede a un trattamento strutturato. Molti continuano a convivere per anni con il problema, normalizzandolo (“sono sempre stato un cattivo dormitore”) o riducendolo a un effetto collaterale di stress, orari di lavoro o altre malattie.

Questa sottovalutazione riflette anche una resistenza storica della medicina a considerare l’insonnia come entità autonoma. Per decenni è stata trattata quasi esclusivamente come sintomo di depressione, ansia, dolore cronico o altre condizioni. Il position paper su *Sleep Medicine* sottolinea come questa visione sia ormai superata: l’insonnia cronica ha una traiettoria propria, bidirezionale, con molte comorbidità, e richiede percorsi diagnostico-terapeutici dedicati, inclusi rimborsi per i trattamenti basati sulle evidenze.

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L’impatto sulla salute mentale, sulla vita sociale, sulla famiglia

I dati italiani confermano che la sofferenza non riguarda solo il sonno. Oltre il 60% dei pazienti con disturbi del sonno riferisce un impatto negativo significativo sul benessere psicologico, con aumento di ansia, umore depresso, perdita di interesse per attività prima gratificanti. Quasi la metà descrive una vita sociale compromessa: meno uscite, minore partecipazione a eventi, più conflitti in famiglia perché la stanchezza cronica rende tutto più faticoso, dalla gestione dei figli alle relazioni di coppia.

Le associazioni di pazienti – come RLS Italia, che rappresenta in particolare chi soffre di sindrome delle gambe senza riposo, spesso associata a insonnia – sottolineano quanto il percorso sia disseminato di ostacoli: difficoltà nel farsi prendere sul serio, poca informazione sui sintomi e sui possibili trattamenti, scarse risorse dedicate nei servizi di salute mentale e nei centri di medicina del sonno. L’obiettivo è duplice: far sentire meno soli i pazienti, costruendo comunità e supporto reciproco, e allo stesso tempo sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni perché l’insonnia venga riconosciuta come priorità di salute pubblica, con percorsi e tutele adeguati.

Come si cura oggi l’insonnia cronica

Le linee guida italiane e internazionali sono molto chiare: la prima scelta terapeutica per l’insonnia cronica non è il farmaco, ma la terapia cognitivo-comportamentale specifica per l’insonnia (CBT-I). Si tratta di un protocollo strutturato, in genere articolato in 6–8 sedute, che lavora su pensieri e comportamenti disfunzionali legati al sonno. L’obiettivo è ridurre l’ansia da prestazione notturna (“devo assolutamente dormire otto ore, altrimenti domani sarà un disastro”), ricostruire un’associazione positiva tra letto e sonno e ripristinare un ritmo sonno-veglia più stabile.

La CBT-I include tipicamente strategie come la restrizione e la consolidazione del tempo passato a letto, il controllo degli stimoli (usare il letto solo per dormire o per la sessualità, non per lavorare o scrollare il telefono), tecniche di rilassamento e un lavoro mirato sulle credenze irrealistiche sul sonno. È un trattamento con un’evidenza robusta: migliora la qualità del sonno, riduce il rischio di ricadute e ha effetti positivi anche su ansia e depressione associate.

Quando la CBT-I non è disponibile, non è sufficiente o non è praticabile per il singolo paziente, entra in gioco la terapia farmacologica. Negli ultimi anni si è affermato un approccio diverso dai sedativi tradizionali: invece di “spegnere” il sistema nervoso con farmaci ipnoinducenti e ansiolitici generici, si cerca di modulare i meccanismi fisiologici che regolano il ciclo sonno–veglia, come il sistema dell’orexina. I cosiddetti antagonisti dei recettori dell’orexina riducono l’iperattivazione dei circuiti della veglia, favorendo un sonno più vicino a quello naturale, con un’architettura preservata e minori conseguenze sulla vigilanza diurna rispetto ai farmaci sedativi classici.

In questo contesto si inserisce anche l’attività di aziende farmaceutiche che hanno scelto di focalizzarsi proprio sull’insonnia cronica, sviluppando nuove molecole, partecipando a studi clinici e promuovendo iniziative di formazione e awareness rivolte a medici e istituzioni. L’auspicio è che queste innovazioni si integrino in percorsi strutturati, dove terapia non farmacologica, farmaco mirato quando serve e interventi sullo stile di vita lavorino insieme.

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Sonno, asse intestino–cervello e microbiota: cosa ci dice la ricerca

Che ruolo ha il microbiota intestinale in tutto questo? Negli ultimi anni, il sonno è entrato a pieno titolo nella mappa dell’asse intestino–cervello. Il microbiota intestinale segue propri ritmi circadiani e viene modulato da fattori come orari dei pasti, luce, attività fisica e, appunto, qualità e quantità del sonno.

Diversi studi osservazionali mostrano che chi soffre di disturbi del sonno – insonnia, ma anche apnea ostruttiva del sonno o forte frammentazione del riposo notturno – presenta spesso una composizione del microbiota alterata, con una riduzione della diversità e variazioni in gruppi batterici coinvolti nella produzione di acidi grassi a corta catena e nel metabolismo degli acidi biliari. Una recente meta-analisi su modelli animali e studi nell’uomo ha confermato che la deprivazione di sonno può modificare la struttura del microbiota, anche se l’entità e la direzione dei cambiamenti variano in base all’intensità e alla durata della restrizione di sonno.

Sul piano meccanicistico, si sta delineando un dialogo complesso: i microbi intestinali producono metaboliti – come acidi grassi a corta catena e derivati degli acidi biliari – capaci di modulare infiammazione sistemica, asse ipotalamo–ipofisi–surrene e neurotrasmettitori chiave per il sonno, come serotonina, GABA e melatonina. Allo stesso tempo, la cronica mancanza di sonno può alterare la permeabilità intestinale, la risposta immunitaria e l’ambiente intraluminale, innescando o amplificando una disbiosi che, a sua volta, rimanda segnali “disturbanti” al cervello. È un circuito bidirezionale, nel quale non è sempre chiaro chi sia il primo motore, ma che potrebbe spiegare perché l’insonnia cronica si accompagni così spesso a disturbi metabolici e infiammatori.

Sul fronte terapeutico, la ricerca sta esplorando se intervenire sul microbiota possa contribuire a migliorare il sonno. Le evidenze sono ancora preliminari, ma alcuni segnali sono interessanti. Due recenti meta-analisi hanno evidenziato che probiotici e paraprobiotici possono determinare un miglioramento, per quanto moderato, della qualità del sonno in adulti con disturbi del sonno o con “sub-healthy sleep”, misurato ad esempio tramite il Pittsburgh Sleep Quality Index. Studi randomizzati controllati hanno mostrato che specifici ceppi, come alcune sottospecie di Bifidobacterium longum o Bifidobacterium animalis subsp. lactis, possono migliorare parametri come l’efficienza del sonno e, al tempo stesso, aumentare l’abbondanza di batteri produttori di acidi grassi a corta catena, suggerendo un legame diretto tra modulazione microbica e regolazione del ritmo sonno–veglia.

Anche dal lato farmacologico emergono dati intriganti: uno studio recente ha osservato che un trattamento prolungato con un antagonista dei recettori dell’orexina in pazienti con insonnia era associato a modifiche misurabili della composizione del microbiota intestinale, con la riduzione di alcuni taxa potenzialmente pro-infiammatori. È troppo presto per trarre conclusioni cliniche, ma questi risultati aprono scenari in cui terapia del sonno, microbiota e metabolismo potrebbero essere pensati in maniera integrata.

Per ora, è importante sottolinearlo, non esistono linee guida che raccomandino l’uso di probiotici come trattamento standard dell’insonnia. Si tratta di un ambito in rapida evoluzione, che richiede studi più ampi, duraturi e con endpoint clinici robusti. Ma per chi si occupa di microbioma, l’idea che una parte del “peso” dell’insonnia passi anche dall’intestino è sempre meno fantascientifica e sempre più oggetto di ricerca sistematica.

Un cambio di paradigma per la salute pubblica

Mettere insieme tutti questi pezzi – numeri italiani, position paper internazionale, nuove terapie, ruolo emergente del microbiota – porta a una conclusione netta: l’insonnia cronica è una patologia di grande rilevanza sanitaria e sociale, e come tale va trattata. Significa investire in servizi di medicina del sonno, rendere realmente accessibile la CBT-I, riconoscere e rimborsare i trattamenti basati sulle evidenze, ma anche promuovere politiche che tengano conto degli effetti del sonno su metabolismo, salute mentale e, sempre di più, microbioma intestinale.

Per il singolo paziente, il primo passo resta sempre parlarne con il proprio medico, evitando il fai-da-te e l’uso prolungato e non controllato di farmaci sedativi. Per il sistema, la sfida è costruire percorsi integrati in cui la persona con insonnia non sia più “un cattivo dormitore” cronico, ma un paziente a cui è riconosciuto il diritto a un sonno fisiologico, rigenerante – e, forse, a un intestino più in equilibrio.

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