Quasi tutti i farmaci che si assumono non agiscono soltanto sul meccanismo alterato alla base del disturbo o della malattia di cui si soffre, ma anche ad altri livelli.

Per questa ragione, accanto agli effetti principali desiderati, possono manifestarsi anche i cosiddetti effetti collaterali, chiamati anche “eventi avversi”.

Per esempio, gli inibitori ddi pompa protonica (proton-pump inhibitors, PPI), farmaci utilizzati per il trattamento di disturbi gastrici come gastriti e ulcere, possono alterare l’equilibrio del microbiota intestinale.

Inibitori di pompa protonica (PPI): come e perché assumerli

I PPI sono farmaci che si assumono per ridurre la produzione di acido cloridrico (HCl) nello stomaco, una molecola essenziale per garantirne la corretta funzione ma che, se presente in eccesso, può dare origine a bruciore o dolore “sordo” a livello di stomaco ed esofago.

Hanno nomi molto simili, i principali sono: omeprazolo, lansoprazolo, esomeprazolo, pantoprazolo e rabeprazolo.

Da quando sono stati scoperti e immessi sul mercato, hanno sostanzialmente migliorato la qualità della vita di chi soffre dei cosiddetti “disturbi acido-correlati“, come la malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE), la gastrite cronica e l’ulcera gastroduodenale.

Grazie ai PPI, molte persone hanno potuto evitare l’intervento chirurgico, fino a qualche decennio fa l’unico trattamento disponibile per risolvere un’ulcera gastrica.

Gli inibitori della pompa protonica vengono di norma prescritti, insieme agli antibiotici, anche quando bisogna eliminare dallo stomaco l’Helicobacter pylori (batterio spesso all’origine di gastrite cronica e ulcera) e per proteggere la mucosa gastrica quando, per la cura di malattie di varia natura, si devono assumere farmaci che aumentano la secrezione acida o che sensibilizzano lo stomaco in vario modo (per esempio antiinfiammatori, come i FANS, o bisfosfonati, contro l’osteoporosi).

I PPI sono tutti farmaci di sintesi chimica, appositamente studiati per inibire in modo mirato la pompa protonica gastrica, responsabile dell’immissione di protoni nello stomaco, a cui si deve l’acidità di questo ambiente.

È bene puntualizzare che non esistono inibitori della pompa protonica naturali, che potrebbero essere pubblicizzati come alternativa terapeutica “green” innocua e tollerabile.

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Effetti collaterali da assunzione prolungata

Secondo le raccomandazioni, se si soffre di reflusso, esofagite non erosiva (ossia senza danni alla mucosa dell’esofago) o gastrite cronica, gli inibitori della pompa protonica devono essere assunti per un periodo di almeno 2-4 settimane.

In presenza di esofagite erosiva (ossia con danni alla mucosa dell’esofago) o ulcera peptica, il trattamento può essere prolungato da 4 a 8 settimane, perché è necessario dare tempo alle lesioni di guarire. Invece, se i PPI sono usati per proteggere lo stomaco dall’azione lesiva di altri farmaci, di norma, la loro assunzione deve durare quanto quella dei farmaci a rischio.

In tutti i casi in cui si prevedono trattamenti con inibitori della pompa protonica di durata superiore alle 4-8 settimane, è necessario che il medico individui il minimo dosaggio efficace e rivaluti periodicamente il paziente e l’effettiva necessità di proseguire la terapia, per evitare possibili effetti collaterali dei PPI assunti a lungo termine.

Come affrontare gli effetti degli inibitori di pompa protonica sul microbiota

“Spegnendo” la pompa protonica gastrica, omeprazolo, lansoprazolo, esomeprazolo, pantoprazolo e rabeprazolo fanno aumentare il pH non soltanto dello stomaco, ma anche quello del primo tratto dell’intestino, rendendolo un po’ meno acido.

Questo cambiamento ha implicazioni non trascurabili sul microbiota, cioè l’insieme di tutti i batteri stabilmente residenti sulla mucosa intestinale.

In particolare, quando il pH aumenta, i batteri “acidofili” (che vivono, cioè, in ambienti acidi) come i lattobacilli e gli altri microrganismi protettivi per l’apparato gastroenterico fanno più fatica a sopravvivere e a moltiplicarsi, mentre specie batteriche potenzialmente patogene possono prendere il sopravvento e causare disturbi gastroenterici più o meno severi.

In aggiunta, l’innalzamento del pH altera la produzione di vitamine utili per l’organismo da parte del microbiota (come la vitamina K e alcune vitamine del gruppo B) e può ridurre l’assorbimento di alcuni minerali e oligoelementi importanti assunti attraverso l’alimentazione (in particolare, magnesio, fondamentale per il buon funzionamento dei muscoli, e calcio, importante per la salute delle ossa).

Per questi motivi, durante il trattamento prolungato con inibitori della pompa protonica, si deve seguire una dieta sana e varia e valutare insieme al medico l’opportunità di ricorrere a integrazioni mirate.

Inoltre, per ridurre il rischio di sviluppare disbiosi intestinali (alterazioni sfavorevoli del microbiota) e disturbi conseguenti, può essere utile assumere prodotti probiotici.

Tra i sintomi della disbiosi causata da inibitori di pompa protonica troviamo:

Se non viene trattata adeguatamente, una disbiosi da PPI può aggravarsi portando alla cosiddetta SIBO, sigla che deriva dall’inglese Small Intestinal Bacterial Overgrowth, cioè sovraccrescita batterica nel piccolo intestino. È una condizione clinica caratterizzata da malassorbimento dovuta proprio a un eccessivo aumento della concentrazione di microrganismi nell’intestino tenue.

Sebbene la SIBO possa avere altre cause (celiachia, interventi chirurgici, ecc.), l’utilizzo di PPI rappresenta il rischio maggiore, soprattutto in caso di terapia cronica, colpendo circa il 50% dei pazienti dopo un anno. La gravità dei sintomi tende ad aumentare nel tempo, con poche forme asintomatiche.

Oltre alla SIBO, l’uso prolungato di PPI ha dimostrato di favorire l’insorgenza di infezioni da Clostridium difficile e, in generale, di infezioni intestinali (soprattutto da Salmonella e Campylobacter) a causa dell’indebolimento della protezione offerta dalla flora batterica commensale.

Nonostante questi effetti gastroenterici siano noti e riportati nei foglietti illustrativi, i PPI sono tra i farmaci più prescritti e utilizzati, talvolta in modo improprio. La protezione dello stomaco per la quale vengono somministrati non si estende infatti al microbiota, anzi, può risultare dannosa.

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Benefici dei probiotici

Quando si parla di probiotici finalizzati a proteggere o riequilibrare il microbiota intestinale, non si deve pensare allo yogurt o ad alimenti genericamente “arricchiti di microrganismi probiotici” che si trovano in abbondanza nei banco-frigo dei supermercati.

Benché siano ottimi alimenti, questi prodotti nella maggioranza dei casi non soddisfano i criteri necessari per potersi dire effettivamente “probiotici”.

In base a quanto stabilito dal Ministero della salute (Linee Guida su Probiotici e Prebiotici, 2018), i prodotti probiotici devono essere sviluppati a partire da microrganismi selezionati e precisamente identificati, di cui sia stata stabilita la sicurezza quando assunti dall’uomo.

Inoltre, ogni dose giornaliera deve contenere almeno un miliardo di microrganismi probiotici per almeno uno dei ceppi batterici probiotici dichiarati in etichetta.

L’ultimo, ma non meno importante, criterio che deve essere rispettato è che i microrganismi probiotici presenti nel prodotto devono arrivare vivi e vitali nell’intestino, senza essere né uccisi né danneggiati dai succhi gastrici acidi (pH 1,4) o dalla bile leggermente basica (pH 7,8): i probiotici in grado di fare ciò sono definiti quindi “gastroresistenti”.

Una volta giunti a destinazione, devono anche essere in grado di moltiplicarsi, aderire alla mucosa e colonizzare l’intestino per un tempo sufficiente ad avviare il riequilibrio del microbiota endogeno.

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