Le evidenze della letteratura sulla capacità dell’intestino, del microbiota contenuto al suo interno e del fegato di comunicare tra loro sono ormai numerose e certificano l’esistenza di un vero e proprio dialogo funzionale, continuo e bidirezionale, tra questi due organi. Le conoscenze sui meccanismi alla base di questo dialogo sono, però, ancora limitate e da approfondire.

A oggi, sappiamo che l’asse intestino-fegato può essere influenzato dalla composizione della flora batterica intestinale e viene messo in crisi dalla presenza di disbiosi. In questa situazione, infatti, l’integrità della barriera intestinale è compromessa e si assiste a un passaggio anomalo di microrganismi e di loro metaboliti nel torrente circolatorio, con ripercussioni negative a più livelli, compreso quello epatico. 

Supportare l’equilibrio del microbiota e una corretta permeabilità della barriera intestinale grazie a prodotti probiotici da assumere per bocca potrebbe aiutare a ottimizzare l’interazione tra intestino e fegato, rendendo meno probabili dismetabolismi e disturbi di varia natura. In prospettiva, i probiotici potrebbero contribuire anche a prevenire e curare diverse malattie epatiche. Le informazioni fornite dagli studi più recenti, confermano che si tratta di una strategia perseguibile, ancorché da comprendere in modo più preciso.

L’asse “intestino-microbiota-fegato”

«Intestino e fegato», spiega in una video intervista pubblicata su Microbioma.it Giovanni Galati, epatologo del Campus Bio Medico di Roma, «comunicano intensamente tra loro, attraverso varie vie. L’esempio più consolidato di questa comunicazione continua è il circolo enteroepatico degli acidi biliari. Dopo essere stati prodotti nel fegato a partire dal colesterolo, immagazzinati nella cistifellea e liberati nel primo tratto dell’intestino (duodeno) per supportare la digestione terminale e l’assorbimento dei grassi e delle vitamine liposolubili (A, D, E, K), gli acidi biliari primari e coniugati (con aggiunta degli aminoacidi glicina o taurina) vengono idrolizzati dai batteri intestinali e trasformati in acidi biliari secondari, che sono poi riassorbiti per il 95% nell’ultimo tratto dell’intestino tenue (ileo terminale e reintrodotti nel circolo sanguigno per essere riciclati dal fegato e successivamente riutilizzati». 

«Il dialogo lungo l’asse intestino-microbiota-fegato» prosegue lo specialista, «è particolarmente complesso perché coinvolge, da un lato, i microrganismi presenti nel lume intestinale che interagiscono con barriera mucosale e, dall’altro, l’asse splancnico-portale costituito dai vasi sanguigni che trasportano al fegato i metaboliti prodotti dai batteri intestinali. In aggiunta, nella comunicazione intestino-fegato intervengono innumerevoli altre sostanze, come le citochine infiammatorie rilasciate dal sistema immunitario enterico e vari prodotti di degradazione batterica, che raggiungono la cosiddetta “barriera vascolare intestinale”. Questa struttura, posta tra mucosa intestinale e vasi sanguini sottostanti, agisce da filtro biologico selettivo estremamente raffinato e rappresenta la linea di difesa più “interna” dell’organismo a livello enterico».

La barriera intestinale

La barriera mucosa intestinale è una struttura continua che presenta caratteristiche differenti nei diversi tratti dell’intestino, in relazione alle funzioni di questi ultimi, ed è costituita da più strati. «Lo strato più “esterno”, orientato verso il lume intestinale», piega il dott. Galati, «è costituito dal muco prodotto dagli enterociti e modificato dal metabolismo dei batteri che compongono il microbiota, in parte ospitati al suo interno (in particolare, Akkermansia muciniphiila, che dalla proteina prevalente nel muco intestinale, la mucina, trae il proprio nutrimento, influenzando le proprietà del muco stesso). La parte più interna del muco, adesa agli enterociti, è invece sostanzialmente sterile. Lo strato sottostante è costituito dagli enterociti, strettamente uniti tra loro grazie alle tight-junctions intercellulari a formare l’epitelio assorbente. Nel contesto dell’epitelio intestinale, sono contenuti anche raggruppamenti di cellule immunitarie che contribuiscono alla difesa della mucosa intestinale e dell’intero organismo, producendo diverse citochine infiammatorie, immunoglobuline di tipo A (IgA) e altre sostanze che impediscono a microrganismi potenzialmente patogeni di arrivare al sangue. Al di sotto di tutte queste strutture è collocata la barriera vascolare intestinale».

La barriera intestinale esercita azioni di difesa dell’organismo anche grazie al rilascio di peptidi antinfiammatori e alla presenza sulla sua superficie di una carica elettrica negativa, che entra in contrasto con la carica elettrica positiva caratteristica della parete dei batteri contenuti nel lume, respingendoli. Il microbiota fisiologico, d’altro canto, partecipa attivamente a proteggere la mucosa intestinale dall’aggressione dei patogeni attraverso vari meccanismi (produzione di peptidi antibatterici, modulazione del pH, competizione per lo spazio e le risorse nutritive ecc.) e a ottimizzarne la permeabilità attraverso la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA, Short Chain Fatty Acids), nell’ambito di una relazione di simbiosi mutualistica vantaggiosa sia per le comunità batteriche sia per l’ospite.

Microbiota intestinale e malattie del fegato

Il microbiota intestinale sembra essere coinvolto nello sviluppo e nell’evoluzione di diverse malattie del fegato. Le patologie epatiche attualmente più studiate in relazione al possibile coinvolgimento eziopatogenetico dei batteri intestinali sono la steatosi epatica non alcolica (NAFLD, Non-Alcoholic Fatty Liver Disease), la malattia epatica alcolica (ARLD, Alcohol-Related Liver Disease) e le cirrosi di differente eziologia. 

«In tutti i casi», sottolinea il dott. Galati, «un elemento patogenetico chiave lungo l’asse intestino-fegato è rappresentato dalla disfunzione della barriera intestinale, in particolare nel senso di un’aumentata permeabilità, che facilita il passaggio anomalo nei vasi sanguigni del circolo enteroepatico di numerosi batteri e loro metaboliti potenzialmente dannosi (indicati con la sigla PAMPs, Pathogen Associated Molecular Patterns), endotossine e citochine infiammatorie prodotte dal sistema immunitario intestinale, che possono così arrivare al fegato, innescando e perpetuando processi infiammatori sfavorevoli».

La permeabilità della barriera intestinale è direttamente proporzionale al danno infiammatorio locale, che altera struttura, spessore e continuità dello strato di muco protettivo e allenta le connessioni intercellulari tra gli enterociti dell’epitelio assorbente. Ma, se è vero che l’infiammazione intestinale promuove l’insorgenza di infiammazione e patologie epatiche, è altrettanto vero che la presenza di queste ultime aumenta l’infiammazione della mucosa intestinale e la permeabilità della barriera, secondo un circolo vizioso difficile da disinnescare, in cui è fortemente coinvolto il microbiota.

«Nei pazienti affetti da alcune malattie epatiche», spiega l’esperto, «è stata riscontrata una composizione batterica intestinale distintiva. Per esempio, nell’intestino di chi soffre di ARLD è stato rilevato un aumento dei phyla dei proteobatteri e una riduzione dei Firmicutes e dei lactobacilli. Inoltre, in questa patologia epatica sembra giocare un ruolo importante il “micobiota”, costituito dall’insieme dei funghi e dei lieviti presenti nell’intestino. In particolare, è stato osservato che l’esposizione sistemica a questi microrganismi può perpetuare e peggiorare il danno epatico cronico, al punto da indurre a ipotizzare di poter trattare un giorno la ARLD anche con farmaci antimicotici, oltre che con l’imprescindibile sospensione del consumo di bevande alcoliche». 

Un altro elemento patogenetico da considerare lungo l’asse intestino-fegato sono gli acidi biliari. «In particolare, nei pazienti con NAFLD è stato riscontrato un aumento degli acidi biliari secondari, maggiormente idrosolubili e più dannosi a livello epatico, compreso l’acido chenodesossicolico, il più tossico in assoluto. Questi composti bloccano il recettore farnesoide X, presente sia nell’intestino sia nel fegato, e ciò porta all’attivazione di specifiche vie proinfiammatorie coinvolte nell’insorgenza di steatosi epatica e di altre patologie, come la colangite biliare. Per questa ragione, il recettore farnesoide X è stato proposto come possibile target farmacologico per il trattamento della NAFLD, sul quale può agire, per esempio, l’acido obeticolico, composto che sembra in grado di ristabilire l’integrità della barriera mucosale, riducendone la permeabilità».

«Nei pazienti interessati da malattia epatica non alcolica», prosegue il dott. Galati, «è stata osservata anche una sovracrescita batterica intestinale, che non è, però, risultata associata a un peggioramento dell’epatopatia né a una maggiore predisposizione allo sviluppo di fibrosi epatica o a una maggiore severità della NASH (Non-Alcoholic Steatoepatitis; condizione più avanzata della NAFLD nella quale, oltre alla presenza di grasso epatico, si riscontrano processi infiammatori, cicatrizzazione e necrosi tessutale, che alterano in modo definitivo la funzionalità del fegato). Anche in questi casi è stata, comunque, riconosciuta una firma microbica intestinale distintiva, caratterizzata da una maggiore presenza dei ceppi di Escherichia coli e Bacteroides vulgatus». 

Gli studi sull’asse fegato-intestino hanno, inoltre, chiaramente indicato che non è la dieta a determinare la composizione del microbiota e, quindi, il danno epatico, quanto il particolare microbiota già presente nell’intestino a condizionare l’alterazione e l’aumento della permeabilità della barriera mucosale e, secondariamente, gli effetti negativi sul fegato. «La prova», precisa lo specialista, «è venuta analizzando gli esiti del trapianto di microbiota fecale (FMT, Fecal Microbiota Transplant) in topi ai quali veniva somministrata una dieta ad alto contenuto di grassi, prima e dopo il trapianto: la destabilizzazione della mucosa intestinale e il successivo danno epatico si osservavano soltanto negli animali con un microbiota intestinale predisponente». 

Nell’analisi dell’asse intestino-fegato, oltre alla tipologia e all’abbondanza relativa dei batteri che compongono il microbiota, va considerata anche la funzionalità dei microrganismi che lo compongono e che, con il loro metabolismo, possono influenzare sia le caratteristiche della barriera intestinale sia gli effetti a distanza sul fegato. 

«In particolare», sottolinea il dott. Galati, «quando il microbiota intestinale produce un eccesso di PAMPs ad attività infiammatoria e questi arrivano al fegato attraverso il circolo entero-epatico, si attivano processi infiammatori. 

Altre alterazioni metaboliche a carico del microbiota riscontrate nei pazienti interessati da NAFLD riguardano la riduzione dei livelli di colina e l’aumento di quelli di trimetilammina N-ossido (TMAO), dannosa per il fegato e associata allo sviluppo di chetoacidosi (condizione tossica per l’intero organismo, tipicamente determinata dalla presenza di diabete insulino-dipendente non compensato, dall’abuso alcolico cronico o dal digiuno prolungato). La produzione di TMAO da parte del microbiota può essere favorita da determinati stili alimentari, come la dieta occidentale o regimi ricchi di carni rosse e poveri di fibre vegetali». 

In funzione delle caratteristiche della dieta, il microbiota intestinale può, però, anche produrre composti antinfiammatori protettivi, come i già citati SCFA e, in particolare, il butirrato. Questo avviene soprattutto quando vengono assunte fibre prebiotiche, come i frutto-oligosaccaridi (FOS), usate dai batteri intestinali come substrato per il loro metabolismo energetico. 

Asse intestino-fegato e cirrosi epatica

La cirrosi epatica di diversa eziologia è associata a un grave danno mucosale e ad alterazioni del microbiota intestinale che riguardano non soltanto il colon, ma anche l’intestino tenue, che viene interessato da sovracrescita batterica (SIBO, Small Intestine Bacterial Overgrowth), accompagnata da alterazioni della motilità e della permeabilità intestinali. 

«Nella cirrosi», sottolinea il dott. Galati, «il danno della barriera intestinale si associa a eventi clinici importanti come un’infezione e la ricorrenza delle infezioni, la gravità dello scompenso epatico e l’insufficienza epatica stessa. Gli studi indicano che il microbiota intestinale dei pazienti che ne soffrono è caratterizzato da un aumento dei phyla Enterococcus, Enterobacter e Staphylococcus, mentre c’è una diminuzione dei Ruminococcus. Un aspetto interessante riguarda la contaminazione dell’intestino da parte di batteri abitualmente residenti nella bocca, che sembra essere legata all’ipocloridria, ossia alla ridotta capacità dello stomaco di secernere acido cloridrico (HCl), indipendentemente dall’assunzione di farmaci antiacidi, come gli inibitori della pompa protonica (PPI)». 

Questa osservazione, unita al fatto che il paziente cirrotico scompensato presenta un danno molto più avanzato a carico della barriera mucosale, avvalora l’ipotesi che sia il particolare assetto del microbiota intestinale a promuovere i processi infiammatori intestinali e l’aumento della permeabilità della barriera, che hanno, poi, ripercussioni negative secondarie a livello epatico. «Su questa base,» precisa lo specialista, «esiste un razionale per indicare in questi soggetti una decontaminazione batterica intestinale, per esempio, con antibiotici non selettivi e non assorbibili come rifaximina, che sembrerebbe in grado di ridurre la permeabilità intestinale e, quindi, la traslocazione di microrganismi verso il sangue e il fegato».

Anche nei pazienti con cirrosi epatica, nella comunicazione distorta tra fegato e intestino, entra in gioco l’alterato ricircolo enteroepatico degli acidi biliari. «In questo caso», spiega il dott. Galati, «il metabolismo degli acidi biliari è molto più compromesso perché, se da un lato si assiste alla loro ridotta secrezione a livello epatico, dall’altro si verifica una ancora più ridotta escrezione attraverso le feci (a causa della diminuzione dei clostridi intestinali responsabili della loro idrolisi), con il risultato di ottenere un aumento netto della concentrazione degli acidi biliari nel sangue, con effetti tossici per l’organismo».

Modulazione del microbiota per la salute del fegato

Alla luce delle evidenze attuali, si può affermare che patologie epatiche di diversa eziopatogenesi hanno come comune denominatore l’alterazione del microbiota, del suo metabolismo e della permeabilità della barriera intestinale, e che particolari assetti della flora batterica intestinale possono essere considerati una sorta di “firma microbica” di diverse malattie del fegato. A essere particolarmente indicativa è la prevalenza di specifici microrganismi patogeni, la cui abbondanza cresce man mano che il danno epatico progredisce. 

«Le informazioni disponibili», spiega il dott. Galati, «non sono sufficienti per considerare determinati profili microbici o singoli ceppi batterici come biomarcatori di una specifica malattia epatica, a causa della variabilità inter-individuale tra i microbioti di persone diverse e delle innumerevoli variabili che possono influenzarne composizione e abbondanza (dieta, equilibri ormonali, assunzione di farmaci, stress, caratteristiche genetiche ecc.). Si tratta, però, di un filone di ricerca molto interessante perché potrebbe permettere, un giorno, di diagnosticare varie patologie del fegato con test fecali o salivari semplici e non invasivi, nonché di comprendere quali pazienti con danno epatico iniziale siano o meno a rischio di progressione, sulla base del riscontro di particolari batteri fecali».

Un’altra area di studio molto vivace riguarda la possibilità di modulare il microbiota e la permeabilità della barriera intestinale nell’ottica di prevenire o trattare le malattie del fegato. «A riguardo», precisa lo specialista, «non si hanno ancora a disposizione dati da trial clinici sull’uomo, ma i risultati ottenuti in studi su modelli animali di epatopatie sono molto incoraggianti. Per esempio, la somministrazione di analoghi del Glucagon-Like Peptide 1 (GLP-1) in animali con NASH sembra in grado di contrastare la progressione della degenerazione epatica su base infiammatoria e lo sviluppo di fibrosi, agendo a livello di mucosa intestinale. Un altro composto potenzialmente utile nel trattamento di diverse patologie epatiche è il già citato acido obeticolico, implicato nella modulazione dell’infiammazione intestinale e della permeabilità della barriera attraverso l’azione sul recettore farnesoide X».

«Altri approcci per affrontare le malattie del fegato attraverso la modulazione del contenuto intestinale», sottolinea il dott. Galati, «si basano sull’impiego di polisaccaridi ad alta viscosità, carboni non assorbibili, betabloccanti non selettivi (che spesso si usano nel paziente cirrotico per la prevenzione del sanguinamento delle varici esofagee, ma che sono anche in grado di ridurre la carica batterica e la permeabilità intestinali), antibiotici non riassorbibili (come la rifaximina) e batteriofagi (virus che infettano e uccidono i batteri patogeni intestinali). In aggiunta, in determinati contesti patologici, potrebbe essere utile la somministrazione di preparati probiotici in grado di supportare la formazione e la persistenza di assetti microbici più favorevoli per l’integrità della barriera mucosa intestinale e la riduzione della sua infiammazione e permeabilità. Oppure, si potrebbero sfruttare microrganismi probiotici ingegnerizzati, resi capaci di metabolizzare selettivamente specifici composti tossici per intestino e/o fegato, neutralizzandoli».

Un ulteriore approccio innovativo si basa sull’impiego di composti post-biotici (ossia, SCFA, acidi biliari secondari, vitamine, acidi organici ecc. prodotti dal metabolismo di batteri probiotici e somministrati come tali, dopo averli isolati dal microrganismo originario), che possono essere sfruttati per ottenere il miglioramento delle caratteristiche della mucosa intestinale in modo più “diretto” e “selettivo” rispetto alla somministrazione dei probiotici dai cui derivano.

«Recentemente», segnala il dott. Galati, «sono stati proposti anche metodi che puntano al resurfacing della mucosa duodenale. In sostanza, attraverso l’applicazione controllata di calore, vengono prodotte nella mucosa intestinale lesioni superficiali, che espongono maggiormente gli strati più profondi alle popolazioni batteriche e ai composti contenuti nel lume, inducendo una sorta di iperattivazione di alcuni recettori insulino-sensibili (analogamente alla somministrazione di analoghi del GLP-1) implicati nella comunicazione lungo l’asse intestino-fegato. In pazienti con scompenso ascitico, invece, è possibile iniettare nella cavità peritoneale liposomi contenenti acido citrico, in grado di catturare l’ammonio in eccesso (prodotto dal fegato e non convertito in urea, di norma eliminata per via renale), rimuovendolo dall’organismo e impedendogli di esercitare effetti tossici a vari livelli, a partire dal cervello. Questo sistema permette di prevenire l’instaurarsi e il peggioramento dell’encefalopatia alcolica».

In futuro, ai pazienti con epatopatie potrebbe essere proposto anche il FMT: al momento, non si hanno dati a supporto dell’impiego di questa procedura nelle malattie del fegato, ma le applicazioni nel trattamento della colite infettiva sono molto incoraggianti.