Negli ultimi anni, il suffisso “-biotico” è stato impiegato per definire un numero considerevole di prodotti contenenti microrganismi ritenuti in grado di apportare benefici a chi li assume e/o sostanze capaci di supportare la crescita di tali microrganismi o da essi derivate: probiotici, prebiotici, simbiotici, post biotici, immunobiotici, psicobiotici e, persino, oncobiotici. 

Tuttavia, c’è ancora molta confusione su come vada usato in modo appropriato questo elemento morfologico del linguaggio e si sente la forte esigenza di linee guida chiare e condivise sui “-biotici” di nuova generazione, a tutela sia dei consumatori sia delle aziende del settore.

Che i “-biotici” suscitino vivo interesse e siano protagonisti di una vera rivoluzione culturale in molti contesti clinici è testimoniato dall’intensa ricerca scientifica degli ultimi anni in questo ambito e dal crescente numero di pubblicazioni reperibili in PubMed utilizzando la keyword “microbiome”. 

D’altro canto, chi si impegna nello sviluppo, nella commercializzazione o nella “prescrizione” di questi preparati si confronta con aspetti normativi e regolatori che faticano a stare al passo con l’evoluzione delle conoscenze e delle possibilità di applicazione. In questo contesto, la recente nascita di un gruppo di lavoro che si pone l’obiettivo di stilare nuove linee guida focalizzate sul corretto utilizzo del suffisso “-biotico” è un primo importante passo per arrivare a identificare nuovi “Criteri di Roma” per i probiotici del futuro.

Probiotici: la definizione OMS/FAO non basta più

«Il primo Expert group congiunto tra OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) sui probiotici, avviato nel 2000», sottolinea in una video intervista pubblicata su Microbioma.it il prof. Lorenzo Morelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e Cremona, «si era reso necessario per sanare un contenzioso legale tra il Brasile e l’Argentina, relativo all’esportazione di latte in polvere contenente batteri liofilizzati, che l’Argentina definiva “probiotici” e che il Brasile non accettava come tali, in quanto il termine all’epoca non era regolamentato a livello internazionale». 

Su invito della World Trade Organization (WTO) è stato, quindi, avviato un processo di valutazione tra esperti per arrivare a una definizione chiara e condivisa di che cosa potesse essere chiamato “probiotico”. Da questo confronto internazionale, emersero alcune caratteristiche imprescindibili che un probiotico deve dimostrare di possedere per essere commercializzato come tale. Sulla base di questa prima definizione, i probiotici sono microrganismi vivi e vitali che, somministrati in quantità adeguata (non definita in termini numerici), sono in grado di determinare un beneficio per la salute di chi li assume. Questa definizione è stata, poi, inserita in tutti i documenti ufficiali dell’OMS, della FAO, dell’European Food Security Agency (EFSA) nell’Unione Europea, della Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e dell’autorità cinese competente e, benché molto semplice e poco restrittiva, è stata fondamentale per lo sviluppo del settore, poiché ha rappresentato il primo punto di riferimento da cui è potuta partire tutta la ricerca scientifica sui probiotici. 

«Oggi», prosegue l’esperto, «in PubMed si trovano più di tre nuovi articoli pubblicati ogni giorno relativi ai probiotici, al microbiota, al microbioma o ad argomenti a essi correlati. Negli ultimi vent’anni, le conoscenze sui probiotici si sono incredibilmente amplificate, grazie all’enorme massa di dati ottenuti mediante la biologia molecolare, la genomica (studio dell’intero materiale genetico dei batteri di interesse), la metabolomica (relativa all’analisi di tutti i metaboliti prodotti da specifici microrganismi), la trascrittomica (focalizzata sulla valutazione dei geni batterici espressi o non-espressi per la produzione di proteine). In parallelo, con l’evoluzione delle tecniche di indagine, i ricercatori hanno allargato lo sguardo oltre l’ambiente intestinale, iniziando a studiare anche altri microbioti dell’organismo (come quelli del cavo orale, dell’apparato urogenitale, della cute, dell’apparato respiratorio ecc.) e a valutare possibili nuovi settori di applicazione dei probiotici per la prevenzione o la cura di patologie nelle quali le popolazioni batteriche possono avere un ruolo, comprese alcune malattie infettive, respiratorie e oncologiche. Non è un caso che durante la pandemia di Covid-19 siano stati pubblicati moltissimi articoli scientifici sul ruolo del microbiota nelle infezioni dell’apparato respiratorio. Sulla scorta della mole di evidenze prodotte in due decenni di intense ricerche, sono stati sviluppati innumerevoli preparati probiotici finalizzati agli scopi più diversi, rendendo indispensabile un aggiornamento dei criteri di definizione e impiego di questi prodotti e l’individuazione di nuovi riferimenti normativi, sia per proteggere il consumatore sia per consentire alla scienza e alle aziende del settore di muoversi su binari sicuri, seri e solidi».

Evoluzione scientifica e regolamentazione

Per la natura stessa del processo di evoluzione scientifica e dello sviluppo delle relative applicazioni, il legislatore arriva sempre con qualche anno di ritardo rispetto alla ricerca, poiché è impossibile regolamentare qualcosa che non è ancora stato scoperto o inventato. 

Così come nessuno avrebbe potuto pensare a un codice della strada prima che fosse stata costruita la prima automobile, allo stesso modo era impossibile stabilire che cosa chiamare “probiotici” e come usarli prima di conoscere le caratteristiche di questi prodotti e la loro potenzialità di migliorare il benessere dell’organismo umano. 

«È indiscutibile che l’elaborazione di una regolamentazione non possa che essere successiva allo sviluppo della materia da regolamentare», sottolinea il prof. Morelli. «Forse, però, nel caso dei probiotici il lasso di tempo intercorso tra disponibilità delle evidenze scientifiche e normativa inerente è stato un po’ più lungo dell’auspicabile. Di probiotici così come li conosciamo oggi, in ambito scientifico, si è iniziato a parlare nel 1989, mentre il primo gruppo di lavoro OMS/FAO si è posto il problema di individuare una definizione soltanto nel 2000, arrivando a un documento ufficiale nel 2002, dopo ben 11 anni di gap tra l’introduzione del nuovo termine e la norma inerente». 

«Oggi», prosegue l’esperto, «la sfida per chi si propone di aggiornare e perfezionare la regolamentazione sui probiotici è, in primo luogo, quella di delimitare l’ambito di utilizzo e le possibili applicazioni dei diversi tipi di preparati. Se il probiotico viene impiegato per modulare una comunità microbica di una persona sana (a livello intestinale, genitourinario ecc.), ci si muove nel campo degli alimenti funzionali o degli integratori alimentari e il ruolo di questo alimento o integratore probiotico può essere soltanto quello di supportare l’equilibrio fisiologico, al fine di promuovere il benessere e ridurre il rischio di contrarre malattie. Alimenti funzionali e integratori alimentari non sono farmaci e, nell’Unione Europea, non possono dichiarare di produrre effetti sulla salute, a meno che non abbiano ottenuto una specifica approvazione da parte dell’EFSA, sulla base del Regolamento (CE) n. 1924/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari (health claims), aggiornato nel 2016. Viceversa, se l’uso di un probiotico ha finalità propriamente terapeutiche e viene, quindi, somministrato a una persona affetta da una patologia come trattamento o per coadiuvarne la risoluzione, la cornice cambia completamente perché il preparato di natura batterica diventa assimilabile a un farmaco e deve essere normato come tale». 

Prodotti di “natura batterica”: le criticità normative

Un aspetto cruciale da considerare nell’aggiornamento della regolamentazione sui probiotici è che, dal 2000 a oggi, accanto all’uso dei batteri “vivi e vitali” che rientrano nella definizione OMS/FAO, sono stati sviluppati preparati di diverso tipo, contenenti batteri inattivati, non-vivi/vitali oppure metaboliti batterici, ai quali sono stati assegnati nomi non contemplati da nessuna normativa né linea guida. 

«Definire bene la natura, le caratteristiche e le proprietà dei nuovi prodotti di origine batterica è fondamentale, sia per tutelare il consumatore da informazioni parziali o inadeguate sia per garantire una concorrenza leale tra le aziende produttrici», commenta il prof. Morelli. «Il legislatore ha il dovere di normare precisamente questi prodotti che, benché di origine batterica, non si riferiscono a microrganismi “vivi e vitali”, dal momento che “vivi e vitali” è una delle conditio sine qua non che la legge prevede per assegnare l’etichetta di probiotico. La ricerca scientifica e le aziende produttrici, dal canto loro, devono individuare precisamente qual è il principio attivo o la sostanza responsabile del beneficio che il prodotto di origine batterica dichiara di offrire e quale dosaggio se ne deve assumere per ottenerlo». 

«Nel caso dei probiotici», ricorda l’esperto, «il “principio attivo” è lo specifico ceppo batterico (che deve essere precisamente identificato e indicato sulla confezione), mentre la dose necessaria è la quantità di batteri vivi presenti nel preparato al momento del consumo “adeguata per ottenere il beneficio per la salute” che, secondo le linee guida del Ministero della Salute, deve essere pari al almeno 1×109 per almeno uno dei ceppi batterici dichiarati in etichetta. Per i probiotici “convenzionali” esistono sistemi analitici in grado di certificarne le proprietà, mentre nel caso dei nuovi prodotti contenenti batteri morti o metaboliti batterici (indicati con il termine “post biotici”) non è ancora chiaro quali criteri oggettivi di qualità debbano essere soddisfatti per poter assegnare una determinata dicitura e comunicare particolari proprietà favorevoli».

Postbiotici

I “postbiotici” sono indubbiamente uno degli argomenti di maggior interesse e discussione degli ultimi anni, non soltanto in campo scientifico (dove è in corso un acceso confronto tra ricercatori su riviste di tutto rispetto, come quelle del gruppo Nature), ma anche in ambito commerciale, in considerazione dei forti interessi economici in gioco. 

«Un’azienda produttrice di probiotici “convenzionali” deve sviluppare tecnologie che permettano di garantire al consumatore la persistenza di quantità adeguate di batteri “vivi e vitali” fino alla data di scadenza riportata sulla confezione (shelf life), conservata nel modo indicato. Queste quantità sono precisamente normate e monitorate dalle autorità di controllo e l’azienda che non rispetta le regole previste può essere sanzionata. Questo, oggi, non avviene per i prodotti contenenti batteri morti o metaboliti batterici perché non è ancora stato definito che cosa si deve misurare e con quali tecniche analitiche, né che cosa vada sanzionato in riferimento alla specificità del preparato. Per esempio, si devono contare le cellule batteriche morte? Quante devono essere? Devono essere necessariamente integre o possono anche essere disgregate? Quali componenti di queste cellule vanno ritenuti “principi attivi” da monitorare e quantificare per stabilire che il prodotto commercializzato è efficace e di buona qualità? A fronte di queste lacune, il consumatore non è sufficientemente tutelato e deve intervenire l’autorità normativa».

Next generation probiotics: i probiotici 2.0

Sulla scorta di evidenze sempre più dettagliate e specifiche sul ruolo dei microbioti delle diverse parti dell’organismo in contesti di salute e malattia, la ricerca negli ultimi anni si è orientata a testare l’impiego dei probiotici non soltanto come interventi di “supporto”, ma come veri e propri farmaci. Prodotti sviluppati con questa finalità sono talvolta chiamati “next generation probiotics” o “biotherapeutics”, ma resta da capire se si tratta di una prospettiva concreta e quanti anni serviranno per poter arrivare a strategie propriamente terapeutiche basate sui probiotici.

«Nella parte introduttiva dei due documenti OMS/FAO sui probiotici del 2002», precisa il prof. Morelli, «era stato sottolineato che tutti i contenuti discussi e le conclusioni tratte si riferivano esclusivamente all’impiego alimentare di batteri probiotici vivi e vitali, escludendo qualsiasi riferimento all’uso come “biotherapeutics”. Il termine “bioterapeutico” fu inserito nei due documenti dopo un lungo dibattito con gli uffici legali, sia dell’OMS sia della FAO, perché la parola inizialmente proposta, “drug”, ossia farmaco, non era stata accettata da tutti i Paesi coinvolti nel confronto a livello mondiale e si doveva individuare un nome alternativo. La scelta di usare “bioterapeutico” ha diverse implicazioni: in primo luogo, non essendo farmaci, i probiotici non sono normati come tali; inoltre, qualora il probiotico fosse usato in un paziente a scopo terapeutico, diventando di fatto un farmaco, i suggerimenti delle linee guida sulla valutazione della sicurezza dei probiotici non si potrebbero più applicare». 

«Personalmente», sottolinea l’esperto, «ritengo che nei prossimi anni lo studio di batteri probiotici “vivi e vitali”, così come dei batteri inattivati e dei metaboliti batterici, per trattare svariate patologie esploderà e, per tutelare i pazienti, sarà indispensabile prevedere le stesse procedure di valutazione di sicurezza ed efficacia in uso per i farmaci convenzionali. Vale a dire, un programma di sviluppo clinico caratterizzato da studi di Fase 1 (nei quali si esaminano i possibili effetti tossici in pochi volontari sani), Fase 2 (dove si valutano sicurezza ed efficacia in un gruppo ristretto di soggetti con la patologia da trattare) e Fase 3 (con valutazione più estesa e approfondita della sicurezza e dell’efficacia in una popolazione abbastanza ampia da fornire risultati statisticamente significativi), a supporto dell’autorizzazione dell’indicazione terapeutica. In questo percorso, non ci si dovrà stupire se i probiotici e gli altri preparati di origine batterica determineranno l’insorgenza di effetti collaterali in una piccola quota di soggetti trattati, come comunemente avviene con qualsiasi farmaco convenzionale. Per questa ragione, bisognerà valutare, caso per caso, il rapporto beneficio/rischio e stabilire quando il primo è tale da giustificare il secondo. D’altro canto, sulla base della mia esperienza in un campo che spazia dall’agraria alle scienze dell’alimentazione, presumo che i vantaggi terapeutici derivanti dai probiotici saranno ben superiori ai potenziali pericoli, come evidenziato anche nelle numerose esperienze condotte negli animali d’allevamento». «In proposito», conclude il prof. Morelli, «va considerato che, già oggi, esiste un’applicazione terapeutica dei probiotici nell’uomo, estremamente efficace nel ripristinare l’equilibrio intestinale in pazienti con infezioni ricorrenti del colon da Clostridium difficile (o Clostridioides difficile), batterio multiresistente agli antibiotici e molto difficile da eradicare. L’approccio probiotico, utilizzato dopo che tutte le opzioni farmacologiche hanno fallito, prevede il trapianto di microbiota fecale (FMT, Fecal microbiota transplant), che è, a tutti gli effetti, una cura basata su batteri “vivi e vitali”, ottenuti dal microbiota fecale di un donatore sano, trasferiti al soggetto con colite ricorrente da C. difficile. Benché possa sembrare un intervento un po’ “estremo”, questa procedura si rivela una terapia salvavita contro un’infezione intestinale severa, che può risultare letale in una quota non trascurabile di pazienti. Pur non basandosi su un probiotico convenzionale o un integratore alimentare, l’efficacia dimostrata nei trial clinici sul FMT forniscono preziose indicazioni sulle potenzialità dei microrganismi probiotici in situazioni patologiche».