Di probiotici si parla sempre più spesso in molti contesti clinici, ma non è ancora chiaro quale debba essere la quantità esatta di batteri “vivi e vitali” da somministrare per le diverse indicazioni, né se sia preferibile utilizzare preparati contenenti un solo tipo di microrganismo (detti mono-ceppo) o miscele di più batteri con caratteristiche diverse (detti multi-ceppo o multi-strain). Le evidenze disponibili sembrano indicare che dosi più elevate di probiotici possano associarsi a una maggiore efficacia e una pratica comune per cercare di ottenere effetti più favorevoli per l’organismo consiste nel riunire all’interno dello stesso prodotto specie o ceppi microbici differenti.

Il razionale alla base della formulazione di miscele multi-strain è aumentare la probabilità che l’impiego di un preparato probiotico si traduca in benefici concreti per la salute di chi lo assume, in considerazione del fatto che più microrganismi probiotici diversi presenti contemporaneamente nell’intestino potrebbero esercitare effetti additivi o sinergici, nonché supportare la creazione di un ambiente favorevole alla propria sopravvivenza, per esempio aumentando la capacità di adesione al muco intestinale o riducendo l’azione antagonista esercitata dal microbiota endogeno.

I criteri di scelta di un probiotico di qualità

Per poter individuare il probiotico ideale da somministrare a un soggetto sano o a un paziente con una determinata patologia è essenziale conoscere i criteri che definiscono un preparato di buona qualità e le caratteristiche dei diversi tipi di probiotici disponibili.

«Il probiotico è, per definizione, un microrganismo vivo», spiega in una video intervista pubblicata su Microbioma.it Giovanni Marasco, gastroenterologo del Policlinico Sant’Orsola Malpighi – Università di Bologna, «e ogni ceppo batterico è caratterizzato da una specifica attività, dalla quale dipendono gli effetti favorevoli per l’organismo di chi lo assume. Un preparato mono-ceppo ha, quindi, un’azione ben precisa e solo quella, mentre prodotti contenenti più specie batteriche differenti possono agire contemporaneamente su più fronti, ciascuno in modo specifico, ma anche sulla base di interazioni reciproche. Per esempio, alcuni microrganismi probiotici modulano la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA, Short Chain Fatty Acid) che proteggono l’integrità della mucosa intestinale ed esercitano effetti metabolici favorevoli, mentre altri sono più orientati a ripristare il corredo microbico intestinale fisiologico (eubiosi), per esempio, dopo una terapia antibiotica che ha indotto un impoverimento e un disequilibrio della flora batterica endogena (disbiosi). Attualmente, la maggioranza dei probiotici in commercio contiene singoli ceppi batterici, ma esistono anche preparati multi-strain, ottenuti principalmente dalla combinazione di lattobacilli e bifidobatteri. Si tratta, in molti casi, di microrganismi storicamente utilizzati dall’uomo anche per produrre alimenti e bevande fermentati e per i quali si dispone di un solido bagaglio di conoscenze scientifiche, che ne certificano l’elevato profilo di sicurezza in persone sane o, comunque, non affette da disturbi immunitari o patologie croniche». 

Prova ne è che, spesso, i probiotici sono commercializzati come alimenti o integratori alimentari liberamente acquistabili dai consumatori senza controllo medico (anche se la classificazione del singolo probiotico può variare in funzione della regolamentazione nazionale dei diversi Paesi).

«Un prodotto probiotico di buona qualità», prosegue l’esperto, «deve riportare in etichetta il nome internazionale dei microrganismi contenuti (precisandone specie e ceppo) e il quantitativo di ogni singolo ceppo in termini di unità formanti colonia (CFU, Colony Forming Units), garantendo che tale dosaggio viene mantenuto fino alla data di scadenza del preparato (shelf-life), correttamente conservato, indicata sulla confezione. Questi due elementi sono cruciali ai fini dell’attività del probiotico nell’organismo, mentre altre caratteristiche, come per esempio la formulazione in compresse, capsule, bustine o bevande monodose, sono meno importanti e possono influenzare, semmai, le preferenze d’assunzione dell’utilizzatore. Relativamente alla quantità in CFU, non sono stati definiti valori che un determinato prodotto deve soddisfare in un particolare contesto d’impiego, ma la maggior parte dei probiotici in commercio contengono quantitativi di microrganismi variabili da 109 (un miliardo) a 1010 (dieci miliardi) di batteri, anche in relazione allo specifico ceppo contenuto e all’indicazione d’uso. Riguardo ai possibili effetti avversi, invece, sono previsti “warning”, generalmente indirizzati a pazienti affetti da malattie croniche, come malattie del fegato, deficit immunitari e particolari condizioni metaboliche, o che stanno assumendo determinate terapie farmacologiche. I possibili rischi associati all’impiego dei probiotici, anche in contesti patologici, sono comunque minimi e ciò permette di utilizzare questi prodotti con ragionevole tranquillità».

Ricerche scientifiche sui probiotici

Gli studi pubblicati in letteratura sui probiotici sono innumerevoli e oltre 1.500 riguardano il loro uso in patologie, principalmente a carico del tratto gastroenterico, ma sempre più spesso relative anche ad altri organi e apparati. «I dati più solidi, derivanti da metanalisi e revisioni sistematiche della letteratura», precisa il prof. Marasco, «si hanno sulla prevenzione della diarrea associata alla terapia antibiotica: una complicanza molto comune, che si riscontra in circa 1/3 dei pazienti che assumono questi farmaci. In questo contesto, è ormai consolidata l’evidenza che alcuni lattobacilli (in particolare, L. rhamnosus) e il lievito Saccaromyces boulardii hanno una buona efficacia, testimoniata da diversi trial randomizzati controllati. Analogamente, esistono dati convincenti sull’uso dei probiotici come intervento coadiuvante la terapia antibiotica per l’eradicazione dell’Helicobacter pylori dallo stomaco. Anche in questo caso, tuttavia, i probiotici sono risultati utili soprattutto per minimizzare gli effetti avversi degli antibiotici più che per un’attività terapeutica specifica aggiuntiva».

Esiste, poi, tutta una serie di studi relativi ad altre indicazioni cliniche come, per esempio, alcune forme di malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD, Inflammatory Bowel Disease). «In particolare», aggiunge l’esperto, «i probiotici si sono dimostrati in grado di supportare il mantenimento della remissione clinica ed endoscopica della pouchite (grave complicanza della chirurgia intestinale, talvolta, resa necessaria dalla presenza di colite ulcerosa severa), ottenuta con la terapia antibiotica. A questo scopo, si sono dimostrati efficaci sia alcuni preparati probiotici multi-strain sia alcuni prodotti mono-ceppo, in particolare contenenti E. coli nissle». 

Gli studi condotti in altri contesti patologici, invece, pur avendo singolarmente fornito risultati incoraggianti, non sono ritenuti abbastanza solidi e omogenei per poter trarre conclusioni di efficacia definitive e, quindi, indicazioni d’uso clinico affidabili.

Probiotici monoceppo o multiceppo: quali differenze?

«Che siano costituiti da un singolo ceppo o da più ceppi microbici», spiega nella stessa intervista su Microbioma.it Diego Mora, docente di Microbiologia dell’Università degli Studi di Milano, «nel mercato attuale, i probiotici rappresentano un unicum nel settore dei food supplements perché sono costituiti da materiale biologico e, più precisamente, da microrganismi selezionati che devono essere mantenuti “vivi e vitali” fino alla data di scadenza del prodotto e il cui impiego deve associarsi a un miglioramento dello stato di salute dell’utilizzatore. Queste caratteristiche, esplicitamente richieste dalle autorità regolatorie per poter assegnare l’etichetta di “probiotico” a un determinato prodotto contenente batteri, comportano alcune criticità sul fronte del controllo di qualità. Per esempio, come posso verificare che questi microrganismi siano stati preparati correttamente e che abbiano mantenuto le proprietà che conferiscono loro lo status di probiotico? Considerando i prodotti in commercio, l’unico esempio virtuoso di preparato contenente microrganismi vivi deputati a svolgere una o più funzioni metaboliche è quello delle colture selezionate per le fermentazioni alimentari (latte fermentato, yogurt, formaggi, insaccati e vegetali fermentati ecc.). In questi casi, le colture batteriche utilizzate sono sottoposte a rigidi controlli di qualità, anche dopo la commercializzazione, perché la loro composizione e attività sono indispensabili per ottenere un prodotto alimentare salubre e dotato delle caratteristiche organolettiche previste per legge e desiderate dai consumatori, che sono in grado di valutarle al momento dell’impiego (il latte non può diventare yogurt se non viene fermentato da lattobacilli e bifidobatteri selezionati)». 

«Per i probiotici», prosegue l’esperto, «la “verifica di funzionalità” dei batteri contenuti in un preparato non è mai stata presa in considerazione, se non per le formulazioni somministrate durante studi di intervento e studi clinici, ossia su un unico lotto di produzione usato specificatamente per quello scopo. In definitiva, a oggi, i probiotici reperibili nei diversi canali commerciali sono venduti esclusivamente sulla base del numero di cellule vive che contengono, ma senza che sia stato verificato se tutte quelle cellule sono effettivamente dotate delle attività enzimatiche che ne definiscono il carattere probiotico, né se le proteine batteriche note per stimolare il sistema immunitario (caratterizzate in diversi studi scientifici) sono propriamente espresse e presenti nel preparato assunto dal consumatore. Soltanto di recente, la letteratura scientifica ha iniziato sottolineare la necessità di introdurre, per i prodotti probiotici, criteri di qualità che vadano al di là della semplice quantificazione del numero di cellule vive, poiché limitarsi a questo parametro è come pretendere di vendere una mandria di bestiame basandosi esclusivamente sul numero di animali vivi, senza precisarne l’età, lo stato di salute, la capacità di produrre latte o carne, il potenziale riproduttivo ecc.».

«I prodotti single strain, o a singolo ceppo», precisa il prof. Mora, «sono caratterizzati da una modesta complessità produttiva e la loro qualità può essere valutata con approcci tecnico-analitici relativamente semplici. Al contrario, i prodotti in multi-strain sono più costosi e impegnativi da produrre perché ciascuno dei ceppi microbici presenti in quel prodotto richiede protocolli di industrializzazione differenti. Inoltre, sulla base della formulazione prevista, ogni ceppo deve essere aggiunto nella miscela in quantità che, nella maggior parte dei preparati attualmente in commercio, non sono le stesse per tutti i ceppi microbici della miscela. Ne consegue che la qualità microbiologica dei prodotti multi-strain è più complessa da valutare e richiede l’utilizzo di approcci analitici di ultima generazione. Sicuramente, un prodotto multi-ceppo si avvicina di più all’assunzione giornaliera “ideale” di microrganismi vivi e vitali, di norma contenuti in alimenti freschi e fermentati».

Quando preferire i probiotici multi-strain

Probiotici mono-ceppo e multi-ceppo sono dotati di attività differenti, che dipendono sia dai particolari microrganismi contenuti sia dal fatto che questi microrganismi siano di un solo tipo o diversi tra loro. Ciò si traduce in differenti indicazioni di impiego. 

«In generale», sottolinea il prof. Marasco, «gli studi clinici indicano che l’efficacia dei preparati multi-strain tende a essere superiore rispetto a quella dei probiotici mono-ceppo, soprattutto in determinate circostanze. Per esempio, un preparato multi-strain è più appropriato ed efficace quando lo scopo della sua assunzione è ripopolare rapidamente un intestino impoverito da una terapia antibiotica aggressiva, spiazzando eventuali microrganismi patogeni od opportunisti ed evitando di esercitare una pressione selettiva sull’ambiente intestinale. A riguardo, va però sottolineato che non è possibile valutare l’esatto effetto finale nell’organismo dei prodotti multi-strain perché l’insieme dei meccanismi molecolari e di interazione microbica e con l’ospite che lo determinano non è mai stato studiato. In letteratura, è reperibile un unico studio in cui è stata effettuata un’analisi comparativa dei prodotti multi-strain a livello di funzione, per esempio, evidenziando un aumento del trasporto del lattosio in alcuni casi e una maggiore attività peptidasica o di trasporto di altri nutrienti e ioni in altri casi». 

Benché, non si sappia esattamente su quali meccanismi si basi, l’efficacia clinica dei preparati multi-strain è stata chiaramente verificata in trial randomizzati controllati di buona qualità e confermata nel contesto di metanalisi. «In particolare», prosegue l’esperto, «per i probiotici multi-strain sono disponibili buoni dati di efficacia nel trattamento del dolore intestinale nei soggetti che soffrono di sindrome dell’intestino irritabile (IBS, Irritable Bowel Syndrome) – che costituiscono una quota considerevole dei pazienti che accedono agli ambulatori di Gastroenterologia, nella prevenzione e gestione delle diarree associate alla terapia antibiotica e nella terapia delle gastroenteriti infettive acute in ambito pediatrico. Dati preliminari, ma promettenti, si hanno inoltre nella prevenzione dell’enterocolite necrotizzante dei nati pretermine. C’è, poi, l’ampio capitolo delle IBD, dove i probiotici multi-strain la fanno da padrone, poiché – come già ricordato – si sono dimostrati in grado di supportare l’induzione e il mantenimento della remissione della colite e della pouchite, oltre che efficaci ai fini della prevenzione primaria, riducendo il rischio che si verifichi il primo episodio di infiammazione intestinale».

Rispetto ai preparati mono-ceppo, i probiotici multi-strain permettono di ottenere un’azione più articolata, che può essere assimilata a un mini-trapianto di microbiota fecale (FMT, Fecal Microbiome Transplant). «Questa similitudine», sottolinea il prof. Marasco, «è particolarmente appropriata nel caso del trattamento della IBS, dove le popolazioni batteriche intestinali sono mantenute, ma si trovano in rapporto sbilanciato. Diversi studi hanno indicato che, nei pazienti con IBS, il FMT è efficace e il prossimo step sarà cercare di identificare i ceppi batterici maggiormente in grado di contrastare la disbiosi alla base dei sintomi gastrointestinali caratteristici (dolore, crampi, gonfiore, meteorismo e flatulenza, stitichezza e/o diarrea ricorrenti), nell’ottica di mettere a punto nuovi preparati multi-strain mirati». 

Non si può escludere che, anziché esercitare azioni additive o sinergiche favorevoli, alcuni dei microrganismi inseriti in un prodotto multi-strain possano competere tra loro o antagonizzarsi, determinando una diminuzione, anziché un aumento dell’effetto probiotico complessivo. «Questa eventualità», commenta il prof. Mora, «appare remota per i prodotti in commercio, perché la scelta dei ceppi microbici che compongono le formulazioni probiotiche multi-strain deriva da un razionale basato su solide evidenze scientifiche e su studi di intervento e clinici. In ogni caso, va considerato che i preparati in commercio contengono microrganismi vivi e vitali, ma metabolicamente inattivi: la loro funzionalità si manifesta soltanto dopo l’assunzione, previa eventuale risospensione in acqua, e soltanto dopo che avranno superato la barriera gastrica e raggiunto l’intestino, dove sono richieste le loro funzioni. A questo livello, i ceppi probiotici si troveranno sicuramente a competere con diverse centinaia di migliaia di altre specie microbiche che compongono il microbiota endogeno ed è in questo contesto che il prodotto multi-strain dovrà svolgere un ruolo antagonista nei confronti dei microrganismi indesiderati che hanno alterato il normale equilibrio del microbiota e giustificato l’assunzione del preparato probiotico stesso». 

Preparati multi-strain nella diarrea da antibiotici

«La diarrea da antibiotici è una problematica rilevante in Gastroenterologia e ha rappresentato il focus della maggioranza degli studi e delle applicazioni dei probiotici», segnala il prof. Marasco. «La metanalisi più recente a riguardo ha incluso circa 11.000 pazienti arruolati in 40 studi clinici ed è figlia di una precedente metanalisi del 2017, effettuata dal gruppo Cochrane, che è l’ente di riferimento a livello internazionale per la revisione sistematica dell’efficacia dei trattamenti in ambito clinico. Queste metanalisi hanno portato a concludere che, nei pazienti che assumono probiotici a scopo preventivo, si ottiene una riduzione più ampia dell’atteso dell’incidenza della diarrea associata antibiotici. In particolare, la metanalisi Cochrane del 2017 indicava una riduzione dal 12 al 18% della diarrea da antibiotici, mentre la nuova metanalisi ha segnalato che il gruppo trattato con probiotici (mono-ceppo o multi-strain) in aggiunta agli antibiotici otteneva un vantaggio terapeutico del 30% rispetto al gruppo che assumeva antibiotici + placebo (preparato simile, ma privo di probiotici) e addirittura del 60% rispetto al gruppo trattato con antibiotici senza placebo. Il riscontro di una differenza del 30% nel beneficio ottenuto tra chi assumeva il placebo e chi non lo assumeva è una conferma di quanto intestino e cervello siano correlati, al punto che anche assumere un preparato inattivo sul piano probiotico può determinare comunque un parziale beneficio legato essenzialmente a fattori psicologici (effetto “brain-to-gut”)».

«Oltre che sul benessere dei pazienti», sottolinea l’esperto, «questo effetto ha importanti ripercussioni sul sistema sanitario perché, per esempio, se la terapia antibiotica è somministrata a un soggetto ospedalizzato, l’impiego dei probiotici può favorire la riduzione dei giorni di degenza e, quindi, dei costi assistenziali. Relativamente alle tempistiche di assunzione del preparato probiotico per ottenere una protezione efficace dalla diarrea da antibiotici, al momento, gli studi forniscono indicazioni abbastanza eterogenee. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, l’assunzione del probiotico viene iniziata insieme a quella dell’antibiotico e proseguita per 7 giorni dopo averlo sospeso; in alternativa, il probiotico viene somministrato per un totale di circa 14 giorni. Relativamente al dosaggio, alcuni studi hanno confrontato gli effetti della somministrazione dello stesso probiotico in diverse quantità (prevalentemente, con uso di preparati multi-strain), indicando che quantità più elevate in termini di CFU tendono a offrire una protezione maggiore dalla diarrea da antibiotici».

«Il dosaggio dei batteri probiotici o, più correttamente, la densità cellulare per grammo di prodotto» aggiunge il prof. Mora, «è un aspetto molto importante, che dipende dal microrganismo presente nella preparazione probiotica e dalla sua capacità di sopravvivere al passaggio gastrico (che a causa del pH acido e della presenza di enzimi proteolitici determina una forte riduzione della vitalità e del numero di cellule vive che vengono assunte). Quindi, è corretto ritenere che, aumentando la densità cellulare per grammo di prodotto, si possa garantire il raggiungimento della destinazione finale, ossia l’intestino, a un maggior numero di cellule vive, come dimostrato in alcuni studi di intervento. Tuttavia, se il prodotto probiotico è inserito in un involucro in grado di proteggerlo durante il passaggio gastrico (packaging gastroprotettivo), può non essere necessario eccedere nel valore di densità cellulare per grammo di prodotto. Questo aspetto ha un vantaggio anche pratico, dal momento che le dimensioni delle capsule/compresse gastroprotette sono limitate e non consentono di ospitare quantità molto elevate di microrganismi. L’efficacia di tutti i probiotici è, comunque, sempre legata alla quantità di cellule vive e vitali che raggiungono il loro ambiente target: il valore di riferimento della normativa italiana del 2018, pari a 109 CFU per dose giornaliera di prodotto, è molto cautelativo, ma rappresenta sicuramente il minimo richiesto per ottenere l’efficacia. Non si può escludere, d’altro canto, che per specie microbiche particolarmente adattate all’ambiente intestinale, anche basse densità cellulari per grammo di prodotto possano risultare efficaci, ma ciò deve essere dimostrato nel contesto di adeguati studi scientifici».