Malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa sono patologie che condividono una base patogenetica comune, caratterizzata dalla presenza di un processo infiammatorio cronico a livello intestinale che si acutizza periodicamente, ma differenti dal punto di vista dei fattori di rischio, dei segni e sintomi e delle opzioni terapeutiche disponibili per tenerle sotto controllo. 

Negli ultimi anni, sono stati pubblicati numerosi studi sulla relazione tra queste malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD, Inflammatory Bowel Disease) e il microbiota, che hanno messo in luce diversi meccanismi attraverso i quali la composizione, la funzionalità e l’equilibrio/disequilibrio della flora batterica endogena potrebbero influenzare la propensione a sviluppare infiammazione intestinale e, quindi, proteggere/promuovere le riacutizzazioni

Le informazioni raccolte finora, ottenute principalmente in modelli animali e in casistiche selezionate di pazienti con IBD, non sono ancora tali da permettere di individuare approcci di trattamento basati sul microbiota trasferibili in pratica clinica. 

Esistono, tuttavia, evidenze preliminari incoraggianti sulla possibilità di impiegare alcuni probiotici capaci di modulare positivamente il microbiota per ridurre il grado di infiammazione della mucosa intestinale.

Malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa: le differenze

«Le IBD», spiega in una video intervista pubblicata su Microbioma.it Manuele Furnari, professore associato di Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva del Policlinico San Martino – Università di Genova, «sono un gruppo di patologie accomunate dallo sviluppo di un processo infiammatorio cronico mediato dal sistema immunitario in individui geneticamente predisposti, ma abbastanza eterogenee nella loro espressione specifica. Nella maggioranza dei casi, le IBD possono essere inquadrate nell’ambito di due forme: la malattia di Crohn e la rettocolite ulcerosa. La malattia Crohn può interessare tutte le porzioni del tratto digerente, dalla bocca all’ano, anche se la sua localizzazione prevalente è a livello dell’ileo terminale e del cieco. La rettocolite ulcerosa, invece, coinvolge quasi esclusivamente la parte più distale dell’intestino, con un’infiammazione che esordisce a livello del retto, potendo poi estendersi in modo continuo al colon di sinistra e a quello trasverso, determinando in alcuni casi anche uno stato di pancolite». 

«Il danno intestinale caratteristico della malattia di Crohn», prosegue lo specialista, «è di tipo “transmurale”, ossia caratterizzato dallo sviluppo di ulcere profonde nel contesto di una mucosa altrimenti sana. Questo tipo di lesioni implica un processo di riparazione che prevede la formazione di cicatrici e che può dar luogo a fibrosi più o meno intensa, fino alla comparsa di tratti stenotici con danno extra-murale, quindi ascessi o fistole. Nella rettocolite ulcerosa, la compromissione intestinale è più “superficiale”, a carico della mucosa e della sottomucosa; in assenza di trattamento, con il tempo, la mucosa può diventare atrofica e sanguinare, viene meno la tipica struttura a pliche delle pareti del colon e, in alcuni pazienti, si possono sviluppare pseudo-polipi». 

Dal punto di vista sintomatologico, si può avere un ventaglio piuttosto ampio di manifestazioni. «Alcuni pazienti con malattia di Crohn», precisa il prof. Furnari, «presentano un quadro caratterizzato prevalentemente da dolore addominale e/o febbre, del tutto analogo a quello di un’appendicite acuta. In altri casi, se il danno a carico della mucosa intestinale è sufficiente da indurre la produzione di secrezioni abbondanti o malassorbimento, può insorgere diarrea oppure all’opposto, se si sviluppano stenosi, si può instaurare un quadro di subocclusione o occlusione intestinale. Nella rettocolite ulcerosa, in considerazione dell’interessamento dell’ultimo tratto dell’intestino, il paziente può notare fin dall’esordio tracce di sangue rosso vivo nelle feci (proctorragia), riscontrate più raramente nella malattia di Crohn, oppure può sperimentare una diarrea mucoematica. Entrambe le patologie, inoltre, sono associate a un aumentato rischio di sviluppare il cancro del colon-retto nel corso della vita».

Microbiota intestinale, sistema immunitario e IBD

«Negli ultimi anni», spiega nella stessa intervista la dott.ssa Stefania Piccirelli, specialista in Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero Multispecialistico di Brescia, «diversi studi hanno evidenziato molteplici interazioni tra il microbiota intestinale, il sistema immunitario e i meccanismi coinvolti nell’eziopatogenesi delle IBD. Tuttavia, l’estrema complessità e la conoscenza ancora frammentaria dei processi molecolari all’origine delle IBD hanno impedito, finora, di comprendere il ruolo esatto di ciascuno dei fattori in gioco e di individuare una terapia propriamente curativa sia per la malattia di Crohn sia per la rettocolite ulcerosa».

Ciò che è certo è che le IBD sono malattie con un’origine multifattoriale, alla quale contribuiscono innumerevoli fattori ambientali e una chiara predisposizione genetica. «La componente genetica delle IBD» precisa l’esperta, «è testimoniata dal fatto che i pazienti, spesso, presentano una familiarità per la patologia. I dati indicano che i soggetti con un parente di primo grado affetto da IBD hanno un rischio aumentato da 4 a 8 volte di soffrirne a loro volta rispetto a persone prive di familiarità e gli studi di GWA (Genome Wide Association Study) hanno individuato fino a 200 alleli coinvolti nella trasmissione di queste malattie. In aggiunta, anche le modificazioni epigenetiche sembrano avere un ruolo che, forse, si chiarirà meglio nei prossimi decenni».

Altrettanto certo è il ruolo di primo piano giocato dal sistema immunitario nell’insorgenza delle IBD e delle loro riacutizzazioni, anche in considerazione delle risposte cui dà luogo su sollecitazione degli agenti ambientali e del microbiota enterico. «Non è un caso», sottolinea la dott.ssa Piccirelli «che nei pazienti con IBD vengano riscontrati spesso anticorpi diretti anche contro batteri e lieviti presenti nel microbiota intestinale. In passato, alcuni di questi anticorpi, per esempio quelli diretti contro antigeni di Saccharomyces cerevisiae, venivano considerati nel contesto degli algoritmi diagnostici delle IBD, mentre oggi si punta di più su altri marker di malattia. Ciò non toglie, che nei pazienti con IBD sistema immunitario e microbiota siano in qualche modo alterati e che si osservi uno squilibrio verso agenti pro-infiammatori rispetto a quelli antinfiammatori. Prova ne è che le terapie che sono riuscite a modificare la storia naturale della malattia sono basate su farmaci biologici ad attività immunomodulante, a partire dagli anti-TNF-α così come gli anticorpi monoclonali, le varie small-molecules e gli anti-JAK-2 di più recente introduzione, tutti indirizzati a inibire i pathway molecolari che inducono le risposte immunitarie improvvise alla base delle riacutizzazioni infiammatorie intestinali».

Scopri i biotici studiati su colite ulcerosa e malattia di Crohn

È stato osservato, inoltre, che il microbiota dei pazienti affetti da IBD è spesso caratterizzato da quadri di disbiosi con azione pro-infiammatoria sulla mucosa intestinale. «Gli studi sulla composizione del microbiota fecale», spiega l’esperta, «hanno permesso di iniziare a caratterizzare le disbiosi di chi soffre di IBD, riconoscendo variazioni distintive di alcuni tipi di microrganismi. Per esempio, si sa che in questi soggetti è quasi assente il Faecalibacterium prausnitzii, che è uno dei membri più importanti del genere Firmicutes (ampiamente rappresentato nel microbiota di soggetti sani) e che ha dimostrato di esercitare un’azione immunomodulante e di immunoregolazione sui linfociti T helper. Viceversa, nei pazienti con IBD si riscontra un aumento dei livelli di Fusobacterium, batterio correlato con una maggiore infiammazione della mucosa intestinale. Lo studio del microbiota nelle IBD è, comunque, soltanto all’inizio e basato quasi esclusivamente su test fecali; resta, invece, tutto da scoprire l’universo microbico mucosale, probabilmente in grado di influenzare in modo più diretto e marcato lo stato infiammatorio della mucosa intestinale (come, per esempio, sembrano fare alcuni ceppi di Escherichia coli patogeni aderenti alle mucose).

IBD, microbiota e permeabilità intestinale

La capacità del microbiota di influenzare l’integrità e il grado di permeabilità della barriera intestinale è stata estesamente verificata, ma i dettagli dei meccanismi molecolari sottostanti sono ancora noti soltanto in minima parte e il reale potenziale dei batteri enterici di modulare questi fenomeni resta da precisare. 

«IBD, microbiota e permeabilità intestinale», sottolinea il prof. Furnari, «sono tre concetti strettamente interconnessi, ma le loro interazioni estremamente complesse e variabili si stanno iniziando a conoscere soltanto ora. Con un’analogia teatrale, possono essere considerati tre attori che si muovono sullo stesso palcoscenico: ciascuno recita il proprio ruolo, scritto sul “copione genetico” e indispensabile per la “rappresentazione biologica”, ma con sfumature di interpretazione che possono variare da uno spettacolo all’altro, in funzione di come gli attori interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda». 

«Per comprendere la natura del rapporto tra microbiota, permeabilità intestinale e IBD», aggiunge l’esperto, «bisogna avere chiaro che la barriera intestinale non è una semplice membrana, ma una struttura anatomo-funzionale che media attivamente la relazione tra l’ambiente “esterno” del lume intestinale, contenente il microbiota, e l’ambiente interno dell’organismo, rappresentato in prima istanza dal circolo sanguigno. Va, poi, ricordato che, oltre a essere molto ricco e diversificato in termini di microrganismi che lo compongono, il microbiota è in grado di esercitare innumerevoli funzioni biologiche grazie all’enorme numero di geni “attivi” che contiene, nettamente superiore a quello che caratterizza l’intero genoma dell’ospite (circa 3 milioni di geni codificanti batterici vs 20.000 di geni codificanti umani)». 

Una funzione fondamentale del microbiota intestinale è quella di contribuire a far maturare correttamente le difese dell’organismo, attraverso le sollecitazioni indotte dagli antigeni batterici che, da un lato, istruiscono il sistema immunitario a riconoscere gli agenti patogeni e, dall’altro, inducono una tolleranza nei confronti dei batteri innocui o favorevoli per l’organismo contenuti nella microflora endogena.

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«Attraverso questi fenomeni», spiega il prof. Furnari, «un microbiota “equilibrato” permette di tenere sotto controllo anche la risposta infiammatoria intestinale, evitando che si inneschino le disregolazioni che possono portare allo sviluppo di autoimmunità, allergie e IBD».

Un elemento chiave della barriera intestinale è lo strato continuo di muco che riveste l’epitelio, costituito dalla successione degli enterociti strettamente affiancati tra loro e intervallati da “postazioni” del sistema immunitario enterico. 

La porzione più esterna del muco, rivolta verso il lume, interagisce e viene modificata dal microbiota intestinale, mentre la sua porzione più interna, adesa all’epitelio, è sostanzialmente sterile ed esercita un ruolo difensivo nei confronti del microbiota stesso, dei patogeni e delle sostanze potenzialmente dannose introdotte con la dieta. 

Alterazioni delle caratteristiche, dello spessore o dell’integrità del muco da parte dei microrganismi presenti nel lume promuovono l’infiammazione della mucosa intestinale.

«Nei pazienti affetti da IBD in fase attiva», aggiunge lo specialista, «sono state riscontrate variazioni distintive del microbiota intestinale rispetto a soggetti sani o con IBD in remissione, in particolare relative alla presenza di una ridotta biodiversità alfa e beta. Ciò significa che chi soffre di IBD presenta, a livello intestinale, un minor numero di batteri in grado di produrre acidi grassi a catena corta (Short Chain Fatty Acids, SCFA), che contribuiscono a proteggere l’integrità della barriera intestinale e a prevenire l’infiammazione enterica. Il coinvolgimento del microbiota nelle IBD è testimoniato dal fatto che, se si somministrano ai pazienti prodotti probiotici o farmaci antibiotici che modificano l’assetto della flora batterica intestinale, si riescono a ottenere e a mantenere tassi di remissione farmacologica più elevati. Nei pazienti affetti da colite ulcerosa sono stati ottenuti buoni esiti clinici anche grazie al trapianto di microbiota fecale (Fecal Microbiota Transplant, FMT)».

Alla definizione della maggiore o minore permeabilità intestinale contribuisce anche la predisposizione genetica, che da sola non basta a determinare l’insorgenza delle IBD, ma che ha sicuramente un ruolo in associazione agli altri fattori trigger. «Molti geni risultati coinvolti nell’insorgenza delle IBD», precisa il prof. Furnari, «hanno un ruolo nel mantenere la funzionalità della barriera intestinale e nel regolare il rapporto tra l’ospite e il microbiota. Quando viene meno l’equilibrio tra questi elementi, l’epitelio intestinale risulta eccessivamente esposto agli allergeni, alle sostanze tossiche, ai batteri o a componenti microbici ad attività antigenica: ciò sollecita in modo abnorme il sistema immunitario sia a livello enterico sia a livello sistemico (a causa del passaggio degli antigeni nel circolo sanguigno) e si scatenano risposte infiammatorie anomale, più o meno intense e prolungate. Per questa ragione, molto spesso, chi soffre di IBD presenta anche sintomi dovuti a condizioni infiammatorie extra-intestinali (a carico di cute, apparato muscolo-scheletrico, bocca, occhi ecc.), anch’esse di tipo multifattoriale e dovute alla combinazione sfavorevole di fattori genetici, intestinali e ambientali».

Il ruolo del trapianto di microbiota fecale nelle IBD

In considerazione del coinvolgimento del microbiota nelle IBD, tra i possibili trattamenti è stato testato anche il trapianto di microbiota fecale

«Riguardo all’impiego e agli effetti del trapianto di microbiota nelle IBD», spiega la dott.ssa Piccirelli, «la letteratura è abbastanza eterogenea, anche a causa dei limiti di standardizzazione di questa procedura che, finora, è stata utilizzata principalmente nel trattamento dell’infezione ricorrente da Clostridioides difficile (C. difficile) e, soltanto di recente, è stata sperimentata anche per cercare di indurre la remissione nelle IBD. In questo contesto clinico, sono stati ottenuti risultati preliminari incoraggianti soltanto nella rettocolite ulcerosa, mentre nella malattia di Crohn il trapianto di microbiota non si è dimostrato efficace.

Le evidenze ottenute con il trapianto di microbiota nel trattamento delle infezioni ricorrenti da C. difficile hanno indicato che si tratta di una procedura sicura e caratterizzata da tassi di efficacia dell’80-90%. 

Nella rettocolite ulcerosa i risultati non sono stati così entusiasmanti e i tassi di efficacia, in termini di remissione clinica endoscopica e mantenimento della remissione in assenza di terapia steroidea, riportati in letteratura sono intorno al 40%. Inoltre, l’eterogeneità delle modalità d’esecuzione del trapianto di microbiota nei diversi studi rende difficile l’interpretazione dei risultati e impedisce di comprendere la reale utilità della procedura in questa IBD.

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«Al momento», prosegue la specialista, «si hanno ancora poche informazioni su quale sia la modalità ideale per effettuare il trapianto fecale nella rettocolite ulcerosa, se per via naso-duodenale o con colonscopia. Alcuni ricercatori ritengono che la somministrazione con clismi possa essere più efficace, in considerazione dell’esordio distale della malattia, come se la disbiosi fosse un processo che parte dalla porzione terminale dell’intestino per poi diffondersi in zone più prossimali del colon. C’è, poi, il grande tema della scelta dei donatori di microbiota sano/funzionale “ideali” per il trapianto di microbiota. Questo aspetto, da sempre oggetto di ampio dibattito, è diventato particolarmente “caldo” dopo la recente pubblicazione dello studio RESTORE-UC (Restoration of the Microbiome Through Superdonor Selection) che, contrariamente alla maggioranza dei trial condotti in precedenza, sembra indicare la non-inferiorità o la superiorità del trapianto autologo rispetto a quello eterologo da multi-donatore o “super-donor”». 

In definitiva, a fronte di alcuni risultati incoraggianti, prima di poter proporre il trapianto di microbiota per il trattamento della rettocolite ulcerosa restano ancora molti aspetti da precisare. Tant’è che, a oggi, le linee guida non considerano neppure questa procedura tra gli approcci terapeutici utilizzabili in pratica clinica (con l’unica eccezione delle linee guida britanniche, che citano il trapianto di microbiota come possibile opzione di trattamento nel contesto di trial clinici).

«Un dato interessante emerso da uno studio canadese», aggiunge la dott.ssa Piccirelli, «riguarda la possibile maggiore efficacia del trapianto di microbiota effettuato in pazienti con rettocolite ulcerosa di recente insorgenza (meno di un anno) rispetto a quello effettuato diversi anni dopo la diagnosi della malattia. Questo riscontro induce a ipotizzare che le disbiosi che contribuiscono a scatenare e a mantenere la malattia infiammatoria intestinale si auto alimentino e si consolidino nel tempo, diventando via via più resistenti agli interventi terapeutici e rendendo necessario ripetere più volte il trapianto di microbiota. Un fenomeno che non è, invece, stato osservato negli studi in cui il trapianto veniva utilizzato contro le infezioni ricorrenti da C. difficile».

L’impatto della dieta nelle IBD

La dieta è uno dei principali driver di modulazione del microbiota intestinale e un importante fattore ambientale in grado di aumentare il rischio di sviluppare IBD. In particolare, lo stile alimentare occidentale sembra essere associato a un impatto negativo su entrambi i fronti, mentre è meno chiaro quali accorgimenti nutrizionali potrebbero essere sfruttati in senso preventivo o a supporto della terapia specifica delle IBD.

«La dieta», sottolinea il prof. Furnari, «è senza dubbio uno dei fattori esterni chiave che, insieme a ulteriori sollecitazioni interne e ambientali sfavorevoli, possono slatentizzare la predisposizione genetica a sviluppare IBD attraverso molteplici meccanismi, a partire dalla capacità degli alimenti assunti di influenzare la composizione del microbiota intestinale, fin dalla nascita e durante tutta la vita adulta. Diversamente da altri elementi, la dieta è facilmente misurabile, controllabile e modificabile, diventando quindi un possibile ambito d’azione in senso preventivo e/o terapeutico, sia nelle IBD sia in altre malattie in cui il microbiota intestinale gioca un ruolo rilevante».

Benché dopo i primi anni di vita la composizione del microbiota tenda a stabilizzarsi, rendendo più difficile contrastare eventuali anomalie “costitutive”, l’alimentazione ha dimostrato di poter influire in maniera positiva (o negativa) sulla regolazione del sistema immunitario. 

«Per esempio», spiega l’esperto, «è stato osservato che gli acidi grassi polinsaturi omega-6 hanno un’azione più pro-infiammatoria rispetto agli omega-3, così come i trigliceridi a catena lunga rispetto a quelli a catena corta, che sembrano invece avere la capacità di sopprimere alcune interleuchine, come l’interleuchina 8 (IL-8), coinvolta nei meccanismi dell’infiammazione tipica delle IBD.

Anche le proteine possono avere un impatto bivalente: alcune sembrano “nutrire” e proteggere l’intestino, mentre altre tendono a indurre fenomeni di putrefazione batterica che portano alla liberazione di sostanze tossiche, come l’ammonio e le poliammine, che potrebbero causare un danno diretto alla barriera intestinale, alterandone l’integrità e la permeabilità. In aggiunta, l’introduzione di proteine alimentari di per sé innocue potrebbe favorire la proliferazione di alcuni patobionti in grado di determinare secondariamente un danno infiammatorio, anche in senso neoplastico».

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I dati indicano, inoltre, che l’eccesso di zuccheri raffinati (tipico della dieta occidentale), poco assorbiti e metabolizzati dall’organismo e molto utilizzati dai microrganismi intestinali, può favorire una sovracrescita batterica e lo spostamento dei batteri verso zone dell’intestino in cui di norma non dovrebbero essere presenti, dando luogo a un particolare tipo di disbiosi nota come SIBO (Small Intestine Bacterial Overgrowth) che, a sua volta, può promuovere l’infiammazione della mucosa intestinale

«Se l’eccesso di trigliceridi a lunga catena, proteine e zuccheri raffinati è associato a una scarsa assunzione di fibre, anch’essa tipica della dieta occidentale», aggiunge il prof. Furnari, «la situazione intestinale peggiora ulteriormente perché viene fornito al microbiota “sano” poco substrato per produrre gli acidi grassi a catena corta (Short Chain Fatty Acids, SCFA), benefici per la barriera intestinale. Un effetto destabilizzante è, inoltre, stato dimostrato per numerosi additivi alimentari comunemente inseriti nei cibi di produzione industriale. In particolare, è stato verificato che gli emulsionanti possono danneggiare direttamente lo strato mucoso, esponendo maggiormente l’epitelio e il sistema immunitario intestinale all’interazione con il microbiota, i potenziali patogeni, gli allergeni e le eventuali sostanze tossiche presenti nel lume».

Tutte queste influenze negative giustificano la forte correlazione osservata tra la crescente diffusione dello stile dietetico occidentale a livello globale, avvenuta negli ultimi due decenni, e la sempre maggiore incidenza delle IBD in tutti i Paesi del mondo. 

D’altro canto, se l’alimentazione è così in grado di influenzare il microbiota e la barriera intestinale, è possibile pensare di sfruttare la dieta, opportunamente calibrata, come un’arma per promuovere o mantenere la remissione nei pazienti affetti da IBD.

«Nonostante i numerosi studi condotti e le molte informazioni raccolte in questo ambito», sottolinea l’esperto, «finora non è ancora stata individuata una dieta specifica in grado di migliorare lo stato intestinale di chi soffre di rettocolite ulcerosa o malattia di Crohn, anche perché alcuni elementi utili in fase di remissione potrebbero determinare un peggioramento dei sintomi nella fase acuta della malattia infiammatoria. Tra i principali regimi alimentari testati si possono ricordare la dieta priva di glutine, analoga a quella proposta per la celiachia, e la dieta FODMAP, che sembra dare ottimi risultati non soltanto in termini di riduzione della sintomatologia e miglioramento della qualità di vita, ma anche di diminuzione dell’attività infiammatoria delle IBD (benché gli studi non siano stati in grado di evidenziare variazioni dei markers infiammatori di riferimento, come la calprotectina fecale). La dieta FODMAP, molto utilizzata anche nei soggetti con sindrome dell’intestino irritabile (Irritable Bowel Syndrome, IBS), consiste nell’eliminare tutti i nutrienti poco assorbiti dall’intestino e molto fermentati dai batteri intestinali».

Un altro regime alimentare che può essere preso in considerazione nelle IBD è la dieta mediterranea, che sembrerebbe essere particolarmente vantaggiosa in quanto caratterizzata da un contenuto bilanciato di acidi grassi polinsaturi, modesta quantità di proteine (in particolare, con ridotto apporto di quelle provenienti da carni rosse, a favore di quelle del pesce e dei legumi) e abbondanza di fibre vegetali solubili e insolubili, vitamine e sali minerali. 

Prebiotici, probiotici e postbiotici

Ma man che la ricerca avanza e le conoscenze sull’ecosistema intestinale e le sue funzioni si moltiplicano, si apre la strada al possibile impiego di diversi prodotti modulatori del microbiota (probiotici, prebiotici, post-biotici ecc.), nel trattamento delle IBD. Ma a che punto siamo, oggi?

«Attualmente,», spiega la dott.ssa Piccirelli, «le evidenze fornite dai trial sull’impiego di probiotici, prebiotici e post-biotici nelle IBD, ancorché incoraggianti, non sono ancora abbastanza solide per poterne supportare la generale indicazione in pratica clinica. Tuttavia, alcuni specifici probiotici si sono già ritagliati un ruolo, avendo dimostrato di migliorare lo stato intestinale in alcune fasi della malattia infiammatoria cronica. Come nel caso del trapianto di microbiota, l’obiettivo degli interventi testati negli studi era la modulazione del microbiota intestinale e i probiotici hanno dimostrato di determinare benefici nei pazienti con rettocolite ulcerosa, ma non in quelli con malattia di Crohn».

L’impiego dei probiotici è suggerito anche dalle linee guida per il trattamento della rettocolite ulcerosa con la finalità di mantenere la remissione nei pazienti con malattia lieve-moderata.

Scopri i biotici studiati su colite ulcerosa e malattia di Crohn